Una Chiesa che ha bisogno dell’altro per essere sé stessa
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Dialogo con Andrea Grillo – seconda parte
La prima parte ha suscitato un dibattito vivace. In tanti mi hanno scritto: chi per dirmi di essere d’accordo, chi per contestare, anche duramente, alcuni passaggi. Ora la seconda parte dell’intervista ad Andrea Grillo. Teologo raffinato e capace di entrare con parresia e coraggio, senza usare linguaggi paludati, nelle questioni ecclesiali con cui spesso abbiamo a che fare.
Quali sono le tue aspettative riguardo al Sinodo da poco avviato?
Sono buone se il Sinodo sarà occasione per la Chiesa per mettersi in ascolto. Una Chiesa in ascolto è una Chiesa che accetta la logica dei segni dei tempi. Si tratta di una parola che, sotto traccia, è molto importante nel pontificato di Francesco e per quella parte di Chiesa che non vuole fermarsi al passato. Segni dei tempi: vuol dire che nella storia succedono cose da cui la Chiesa ha da imparare. A volte noi li interpretiamo semplicemente come: “nel corso della storia, ci sono cose che meritano attenzione”. Non è così: per Giovanni XXIII – nel 1963! – i segni dei tempi sono diversi. Sono i popoli che hanno la stessa dignità, i lavoratori che hanno la stessa dignità dei datori di lavoro, e le donne hanno la stessa dignità degli uomini. Ora il mondo è andato avanti e oggi ci sono anche altri segni dei tempi da leggere. Sono l’evidenza di questioni che riguardano la natura, il Creato. Ancora: l’evidenza di nuove forme di esperienza del sentimento, della relazione. Insomma, ci sono mondi che stanno cambiando e nei quali è possibile trovare elementi di male e di bene e poi imparare a discernere.
Un confronto serio finalmente con la modernità…
I due Sinodi avviati – sia quello universale e sia quello particolare proprio delle singole Diocesi – hanno la possibilità di mettersi in sintonia con questo bisogno di ascolto. Si debbono elaborare i segni dei tempi. Dunque si impone la necessità di lavorare sul linguaggio, sulle riforme istituzionali, e sui diritti-doveri-doni dei soggetti. Questi sono i tre fronti su cui dobbiamo uscire dalle forme d’ancien regime che ancora gestiamo nella Chiesa. A volte non ci rendiamo conto che noi confondiamo la tradizione ecclesiale con le forme tridentine o ottocentesche con cui abbiamo gestito il matrimonio, le parrocchie, i rapporti con gli Stati. Sono state buone soluzioni nei tempi trascorsi ma oggi fanno acqua da tutte le parti. Non si vede perché dobbiamo ancora tenercele, se non confondendo la normatività della parola di Dio e della tradizione con la normatività dei singoli passaggi.
Ci sono cose della tradizione che è bene che muoiano perché la tradizione continui. E’ sempre stato così, non è che ce lo inventiamo noi oggi. Nella storia della Chiesa per lungo tempo non ci sono stati i seminari. Fu il Concilio di Trento ha imporli in tutte le Diocesi. All’inizio fu un trauma perché c’era chi diceva “Non si è mai fatto così, si è sempre fatto diversamente”. Il Concilio di Trento ha avuto il coraggio e l’autorità di dire “No, i futuri preti devono fare il seminario”. Oggi quella soluzione, in quella forma lì, non funziona più. Forse oggi non si dovrebbe fare il seminario per diventare preti. C’è stata una lunga stagione in cui non si diventava preti così, in questo modo. Leggiamo di Ambrogio, ma anche Agostino. Sono diventati preti per forza, li hanno presi, li hanno scaraventati in Chiesa e li hanno ordinati. Si tratta di un modo violento che non accetteremmo, ma, nella storia, c’è stata anche una Chiesa così. Dunque non bisogna scandalizzarsi se vogliamo riformare il seminario. Se vogliamo riformare anche le giurisdizioni delle Diocesi, i tribunali canonici… Sono tutte cose che passano, le loro forme storiche non sono definitive.
Che cosa significa per la Chiesa prendere una forma sinodale? Perché quello che lei sta dicendo adesso significa una configurazione, una postura che è quantomeno insolita, per la nostra Chiesa d’Occidente e per la Chiesa italiana.
Credo che significhi assumere il buono che c’è all’interno delle esperienze che la Chiesa ha fatto nel passato e anche nel presente. Fare i conti, discernendo, con quanto è stato determinato dalle rivoluzioni che hanno cambiato il mondo. Penso alla rivoluzione industriale e quella liberale, francese e americana. Attenzione però ad un equivoco su cui continuamente scivoliamo: noi usiamo la parola Sinodo, perché è una parola classica. Però il Sinodo di cui parlano i padri tridentini e quelli che, in due giorni, si celebravano, soltanto tra preti, negli anni cinquanta dello scorso secoli non hanno molto da insegnarci. Il Sinodo di cui parliamo oggi è la forma classica ma ripensata con categorie nuove. Nessuno ci dispensa dal pensare come si esercita la libertà, chi vota e quali sono i temi di cui si deve parlare.
In Italia, ma anche fuori, ci sono stati subito vescovi che hanno detto “No, di questo non si deve parlare”. In realtà, se è un Sinodo, nessuno stabilisce prima di cosa si deve parlare. Su questo, papa Francesco è stato fin dall’inizio chiarissimo. Chiesa sinodale significa, per esempio, una Chiesa che si lascia insegnare dai mondi della democrazia, sempre incompiuta, ma nella quale ci si ascolta. Ancora: una Chiesa che si fa istruire da nuovi stili di gestione della realtà, di ascolto del Vangelo e di vicinanza a coloro che hanno più bisogno della parola evangelica. Perché una Chiesa capace di mettersi in una postura sinodale diventa un luogo nel quale si ha bisogno dell’altro per essere se stessi.Prendendo in questo modo finalmente congedo punto da un modello di Chiesa detentrice di un’autorità in concorrenza con quello dello Stato o dell’Università. Questo è l’immaginario – di cui siamo ancora vittime – del quale non è responsabile né il Medioevo né il Concilio di Trento ma l’Ottocento.
Un cambiamento di non poco conto…
Certamente. Attraverso lo stile sinodale, impariamo l’arte di essere Chiesa senza ricorrere alle forme di esercizio del potere. E senza dipendere da forme di identità e di relazione tipiche dell’ancien régime. Purtroppo per noi la Chiesa cattolica spesso viene ancora identificata con la non-democrazia, con il non-consenso. Tante volte sentiamo dire: “Il Sinodo non è un parlamento”. Sì, però qualcosa dal parlamento abbiamo imparato. Nel senso che quel consenso lì è fondamentale non per prendere le decisioni in senso assoluto, ma per capire come stanno le cose. Solo nel confronto si capisce davvero che cosa vuol dire oggi amore. E anche che cosa vuol dire oggi vivere insieme, che cosa vuol dire oggi lavorare.
Aiutaci a capire meglio. La Chiesa non è una democrazia ma non può esimersi dall’ascolto e dal confronto. Come mettere insieme queste due istanze?
Qui si tratta di lavorare sulle istituzioni. La tentazione che oggi noi viviamo, sia nella Chiesa che fuori dalla Chiesa, è di pensare che se fai una nuova legge le cose vanno a posto. Le leggi da sole non cambiano le mentalità, i modi di vivere e di fare. Però è anche vero che se tu pensi che gli strumenti sinodali, i confronti e gli ascolti servano soltanto a maturare le coscienze. Non tieni conto che gli uomini reagiscono anche ad atti istituzionali, cioè a permessi, a divieti, a orientamenti, a incentivi. Di questo la Chiesa deve prendere atto. Se noi discutiamo, parliamo, ma non prendiamo provvedimenti concreti in termini di aperture sul piano del ministero. Se non adottiamo forme di consultazione del sensus fidei diverse dalla opzionalità, rischiamo di non incidere.
I codici canonici in fondo sono piccole edulcorazioni di un sistema assolutamente monocratico, incapace di gestire la divisione del potere mentre nella Chiesa alcune esperienze di divisione del potere sono necessarie. Non è che non ce ne siano, ma quelle che ci sono soprattutto ad intra. Ad extra la Chiesa è assolutamente monolitica. Questo è un suo limite, perché parla un linguaggio vecchio di duecento anni. In questo senso, il punto di equilibrio è accettare che le norme fondamentali della vita della Chiesa abbiano qualcosa da imparare dallo sviluppo delle forme di vita e delle forme istituzionali degli uomini e delle donne moderne.
Prova a vedere, ad esempio, come si gestisce il caso di crimini commessi da uomini di chiesa, che siano preti o laici. Serve oggi un dialogo trasparente con la giustizia civile. Ma questo le norme non ci permettono di farla, perché appunto abbiamo costruito mondi giuridici e istituzionali rispetto a quelli dello Stato. Questo non regge più. E vale anche quando abbiamo a che fare con il matrimonio, le forme di penitenza e molto altro. A prima vista, sembra una cosa aberrante, ma è sempre stato così, nella storia della Chiesa: i passaggi sono sempre stati passaggi di confronto radicale con il mondo.
Riuscirà il Sinodo a dare voce e mettersi in ascolto di chi vive ai margini delle vicende ecclesiali?
Credo che lo possa fare, ho la speranza che lo faccia purchè accettiamo di convertirci. Non parlo solo di conversione del cuore, che è pure è fondamentale. Ma anche di convertire le mediazioni del cuore, cioè il nostro modo di parlare di pensare, di costruire esperienze ecclesiali. Vedi, a parlare con le parole bibliche si fa presto. E’ più difficile tradurle qui a adesso, perché siamo legati agli orizzonti di senso di cento, centocinquanta anni fa.
Ad esempio, la parola omosessuale, tanti cristiani la associano immediatamente ad un vizio della castità. Se uno ragiona così, è handicappato nei confronti del reale, perché vede prima di tutto il peccato e non la persona. Dunque, in questo caso ma potrei farne molti altri. Le categorie con cui pensi sono vecchie, non funzionano più. Essere omosessuale non è anzitutto – anche se a a qualcuno può sembrare spontaneo – peccare contro la castità. Questa idea è frutto di un mondo e di una storia che abbiamo alle spalle ma che oggi non regge più e che emargina, lascia fuori.