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Terra Santa. Violenza e speranza

Terra Santa. Violenza e speranza

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana] 

Genitori palestinesi e israeliani, che hanno perso figli negli attentati, dialogano.
Nello Yad Vashem il ricordo straziante dei bambini morti nei lager nazisti.
Mons. Pizzaballa e le incerte prospettive, nonostante tutto

Spesso durante i miei viaggi a Gerusalemme cerco di incontrare Rami, un amico carissimo, ebreo da sempre, figlio di un superstite di Auschwitz, israeliano da alcune generazioni. Rami, insieme con Bassam Aramin, è il protagonista di un libro straordinario – Apeirogon (Feltrinelli 2021) – che merita assolutamente di essere letto.  

Rami: la figlia massacrata

Più di vent’anni fa, Rami ha perso l’unica figlia femmina, Smadar, esplosa a Ben Yehuda Street, insieme ad alcune amiche e a due palestinesi suicidi. Erano le tre del pomeriggio di un giovedì che ha cambiato irreversibilmente la vita del mio amico e della sua famiglia. Rami, dopo un doloroso percorso, oggi è una delle figure di spicco dei “Parent’s Circle”, l’associazione a cui possono aderire unicamente genitori ebrei e palestinesi che hanno perso il figlio o un parente stretto nel conflitto.

Ogni volta, racconta  che lui e i palestinesi sono fratelli nel dolore. Loro, famiglie delle vittime, insieme dal profondo del comune dolore, vogliono dire a tutti che il sangue è dello stesso colore rosso, la sofferenza è identica e cosi pure le stesse identiche lacrime amare. E soprattutto che l’altro è un essere umano. Non un terrorista ma una persona con un nome e un cognome, una storia ricca di sentimenti ed emozioni.

Lo Yad Vashem e il Memoriale dei Bambini

La stessa emozione che provo quando sosto a Yad Vashem, la collina della memoria eretta da Israele agli inizi degli anni Sessanta per ricordare la Shoa, lo sterminio, sistematico ed organizzato, di sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti e dai loro collaboratori. Un posto unico al mondo dove la ricerca storica e alcuni luoghi sparsi qua e là sul territorio museale cercano di aiutare il visitatore ad andare oltre le cifre e, dietro ai numeri dell’arida contabilità di morte, a cercare di cogliere i volti, le storie, le biografie di uomini e donne, di vecchi e di bambini. Ognuno con il suo carico di dolore e di speranza. Ed è quello che, con dolore, restituisce il Memoriale dei Bambini.

Un labirinto nel buio, costruito in una caverna sotterranea al termine della quale cinque candele, attraverso uno straordinario gioco di specchi, vengono riflesse un milione e mezzo di volte, numero approssimativo dei bambini e dei ragazzi ebrei morti nei campi di concentramento e di sterminio. Mentre si gira attorno a questo firmamento di stelle, seguendo nella penombra un corrimano, voci registrate fuori campo elencano nelle varie lingue i nomi delle vittime: «Eugene Sandor, 12 anni, Jugoslavia… Maritza Mermelstein, 8 anni, Cecoslovacchia…». Le voci impiegano mesi per chiamare tutti per nome. Perché, come dice il Talmud, «Dio sa contare solo fino ad uno».

Il dolore dell’altro

Forse un modo per uscire dalla logica del conflitto che incatena da decenni il popolo ebraico e quello arabo palestinese è proprio questo. Dare un nome, riconoscere dignità, ascoltare il dolore e le ragioni dell’altro. Chiamare le cose per la verità che queste rappresentano. Quanti di noi sanno che la Striscia di Gaza  è una piccolissima area di 360 km quadrati con più di due milioni di abitanti  e una densità demografica tra le più alte del mondo: 4600 per chilometro quadrato? Fatte le proporzioni è come se in Italia vivessero insieme più di un miliardo di persone: uomini e donne, vecchi e bambini.

Mons. Pizzaballa: Il compito di Israele

Nelle scorse settimane ho avuto un lungo colloquio con il Patriarca di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa. Un uomo che abita quella terra da più di trent’anni e la conosce bene. Un credente che cerca di aiutare la Chiesa locale, composta non solo da arabi,  a stare nel conflitto custodendo la relazione tra giustizia e perdono. Perché, sostiene, non si può parlare di giustizia senza perdono, non si può parlare di perdono senza giustizia. Invita la comunità cristiana a testimoniare la partecipazione ai drammi e alle speranze dei due popoli e a riconoscere i piccoli segni, a volte di nicchia, che rappresentano un minimo di resistenza, di resilienza a questa situazione di profonda sfiducia.  

Gli ho chiesto come vede il futuro. Mi ha risposto così: “In molti circoli conservatori e anche diplomatici, si sostiene oramai che la soluzione “due popoli e due Stati” non sia più realizzabile. Dal punto di vista pratico è vero ed è probabile che si vada verso qualcosa di diverso che ancora nessuno sa. E’ pure vero che la soluzione “uno Stato per due popoli” è anch’essa irrealizzabile a meno che non si dia vita ad Stato di apartheid come era quello sudafricano. Ci sono troppe difficoltà, sia demografiche che di uguaglianza di diritti. La soluzione due popoli due stati è dunque una non soluzione ma oggi ancora l’unica possibile. Ti confesso però che mi sto convincendo sempre di più che l’idea di trovare una soluzione sia una tentazione diabolica. Ci sarà senz’altro una soluzione definitiva ma bisognerà accettare percorsi, fasi, cambiamenti e superare l’idea che si possa arrivare ad un accordo e una soluzione che in modo rapido superi le controversie. Il conflitto ha sempre  più carattere religioso meno politico e quanto questo avviene il compromesso è sempre più complicato e difficile perché la religione ha sempre una visione totalizzante che ama poco le mediazioni.”

L’impegno e il compito di costruire una terra dove coniugare se non pace e perdono ma almeno pace e giustizia spetta ad entrambi i popoli. In particolare a Israele che proprio in queste settimane festeggia il 75° anniversario della sua fondazione. Perché – la storia di questi anni lo dimostra – non sarà un esercito più forte, più numeroso, né le armi più potenti che permetteranno di arrivare alla pace. Bisognerà trovare altri modi per vivere insieme. Non c’è altra strada.

 

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