Preti che scoppiano
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
“Non ce la faccio più. L’ho comunicato a chi di dovere ma ho la sensazione che non mi prendano sul serio”.
Così mi ha detto nei giorni scorsi un amico prete che è passato a trovarmi. Sono tanti i preti della nostra diocesi che, in forme diverse, denunciano, in misura crescente, la fatica di stare dentro gli impegni parrocchiali sentiti sempre più insostenibili.
Difficoltà personali, ricoveri, rinunce
Non è un caso che negli ultimi anni si sono moltiplicati in diocesi non solo situazioni personali che hanno richiesto stacchi e in alcuni casi ricoveri ospedalieri ma anche numerose richieste di rinuncia esplicita alla parrocchia.
Un tempo l’ambizione era vedersi assegnata una parrocchia di grandi dimensioni, oggi pare il contrario. Non che manchino aspiranti candidati, però è certamente cambiato il clima e le aspettative al riguardo.
Crisi del prete? Crisi della parrocchia? Credo entrambe le cose. Di sicuro, assistiamo ad una crescente disagio da parte dei preti. Burnout (più o meno dichiarato), marginalità crescente, fine del “ruolo”, sono solo alcuni dei molti aspetti di un turbamento che, benché spesso tenuto nascosto, interpella fortemente la Chiesa, anche quella bergamasca. Almeno su due aspetti fondamentali: il discernimento sulle modalità storiche con le quali il ministero sacerdotale possa vivere oggi nella chiesa e nelle società odierne e i modi attraverso cui il ministero possa rappresentare una contraddizione per il tempo presente.
La parrocchia in crisi di identità
Resta poi sospesa la risposta alla domanda che si fanno in molti: la parrocchia, straordinaria e feconda eredità del tridentino, è arrivata al capolinea? Perché – la sensazione è di tanti – la parrocchia oggi viva una profonda crisi di identità, frutto spesso delle crisi precedenti.
Nel XXI secolo, cosa vuole essere la parrocchia? Erogatrice di sacramenti? Rassegnata comunità di superstiti nostalgici del tempo antico? Banco vendita dei proprio talenti? Agenzia sociale? Agenzia del culto? Gruppo autoreferenziale di amici? Centro anziani? Cerchia di impauriti che si riconosce in poche parole d’ordine? Ente pellegrinaggio? Centro estivo per bambini? C’è un’identità che deve essere ricostruita, tra rinunce salutari (e probabilmente dolorose), aperture, coraggio, smarrimenti. L’inerzia, la navigazione sotto costa, le contraddizioni sono segni di una comunità in cerca di se stessa (Sergio Di Benedetto).
Vivere così è difficile
In ogni caso, è evidente quanto siano poco significativi il linguaggio e i temi parrocchiali ai molti che sempre di più stanno fuori dal perimetro ecclesiale. E’ comprensibile quindi la difficoltà dei preti a stare dentro una situazione fluida nella quale si fatica a intravedere percorsi e strumenti di rinnovamento. Al punto che parecchi sacerdoti che conosco ritengono oramai superato e non più sostenibile un modo di vivere (da celibi, soli, senza vere relazioni autentiche) e un modo di operare che li vede come manager responsabili di un numero sempre più grande di comunità e quali distributori di “servizi” con il compito di soddisfare i bisogni religiosi di fedele sempre meno interessati.
Questioni complesse e proprio per questo, come Chiesa, andrebbero discusse e ragionate insieme più di quanto non si faccia.
La patina di silenzio, le complici omissioni, creano l’illusione di spostare più in là il problema, così che il tempo possa portare a soluzioni più o meno accettabili. Nel frattempo, si caricano le vite delle persone di pesi. Per qualcuno, sempre più insostenibili.