Pochi preti, troppe strutture. Immaginare un futuro possibile
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
l numero di luglio di Jesus, il mensile dei Paolini, ha ospitato un dialogo a più voci attorno al tema “Verso una Chiesa senza preti?”. Ad intervenire mons.Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, la ricercatrice Paola Lazzarini Orrù, presidente di “Donne per la Chiesa”, il sociologo Marco Marzano, docente presso l’Università di Bergamo e autore del recente “La casta dei casti” (Bompiani 2021), don Dario Vitali, professore di Dogmatica in Gregoriana.
Il punto di partenza è il paradosso presente nella Chiesa italiana, e in generale in quella occidentale: i preti sono in costante calo e quelli in servizio diventano sempre più anziani. Eppure non diminuisce il tasso di “clericalismo” con cui è organizzata la vita ecclesiale. I numeri, per un verso, parlano chiaro: i sacerdoti diocesani nella penisola sono circa 32 mila, nel 1990 erano 6 mila in più. Ma preoccupa soprattutto l’età: oggi un terzo del clero ha più di 70 anni, un altro quinto ne ha più di ottanta e solo un prete su dieci meno di 40. Ciononostante, tutto continua a ruotare attorno alla figura del presbitero, vero dominus sia della gestione amministrativa che di quella pastorale, salvo rare e timide sperimentazioni in cui anche i laici e le religiose assumono incarichi istituzionali.
Il dialogo – di qualità e polifonico pur nell’accento molto diverso delle voci intervenute – andrebbe letto per intero. Mi interessa in questa sede richiamare alcune idee proposte da mons.Erio Castellucci, da poco nominato vice presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Pochi preti, ma “non si tratta di trovare sostituti”
Di fronte al calo numerico dei preti e alla scelta organizzativa fatta da molte Diocesi di riunire le comunità in “unità pastorali” nelle quali quasi sempre la parrocchia non viene soppressa o accorpata ma semplicemente più chiese sono affidate a un unico presbitero, il vescovo di Modena risponde che “una risposta inadeguata sarebbe quella di mantenere la struttura pastorale delle nostre comunità così com’è e cercare risposte altrove. Non si tratta di trovare sostituti, siano essi preti immigrati o altre figure che, pur non essendo presbiteri, continuano a far dipendere la comunità di un’unica persona.”
Dunque nessuna tentazione di reclutamento in altri Paesi, specie in Africa e in Asia, ove, fa notare Marzano al focus, aumentano le conversioni al cattolicesimo e le vocazioni, “ma ci sono limiti nella capacità di formare il clero”, per cui i pastori rischiano di essere più insufficienti di quanto non lo siano in Italia.
Troppe strutture: verso un’esperienza di Chiesa più dinamica
La via da seguire, osserva Castellucci, “è quella di immaginare una diversa esperienza di Chiesa, più dinamica e meno legata a dei singoli luoghi, meno dipendente dai preti, più animata da persone che svolgono ministeri diversi – non solo ministeri istituiti, ma anche altri servizi – più affidata ai laici”.
Si tratta di superare nei fatti – e non solo nelle intenzioni – lo schema parrocchia-prete tuttofare, detentore di ogni potere e fornito di ogni competenza, per taluna delle quali non ha magari né preparazione, né attitudine.
Anzi, di fronte al calo dei fedeli praticanti, “si potrebbe paradossalmente dire che meno cristiani ci sono, più avrebbe da fare un prete, perché dovrebbe ripartire dall’annuncio del Vangelo e dall’accostamento alle persone che vivono dove è lui.”
Circa le strutture, materiali ma anche pastorali e spirituali, don Erio, senza mezzi termini, le definisce “ritagliate su un numero di presbiteri molto più alto, triplo o quadruplo di quello attuale, e soprattutto solo sui presbiteri, cioè impostate in modo piuttosto clericale”.
Ricominciare da ciò che è davvero essenziale
Bisogna avere il coraggio, anche rischiando l’impopolarità, di mettere mano a questa “eredità molto pesante e di ristrutturare i beni che possono essere veramente a servizio del Vangelo e delle persone, specie dei più disagiati”.
Con coraggio il vescovo di Modena sostiene che: “non dobbiamo perdere troppo tempo ed energie a conservare ciò che non serve più.” E conclude: «Emerge sicuramente la necessità di affrontare ciò che è essenziale nella Chiesa italiana e universale di oggi, alla luce dell’esperienza della pandemia, non solo in senso sanitario ma religioso, culturale, sociale, economico… Credo che se ci si ponesse al Sinodo la domanda su che cosa davvero è essenziale, cercando appunto di discernere tra ciò che davvero è evangelico e ciò che è sovrastrutturale, sarebbe già parecchio”.
Già un’agenda di qualità per un Sinodo che – finalmente! – a breve dovrebbe partire.