Per una Chiesa che sappia narrare. Non solo presentare dogmi
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Ho imparato a leggere a 5 anni, nella classe del fratello Justiniano, nel Colegio de la Salle, a Cochabamba (Bolivia). È la cosa più importante che mi sia successa nella vita. Quasi 70 anni dopo ricordo ancora con nitidezza come questa magia, tradurre le parole dei libri in immagini, abbia arricchito la mia vita, rompendo le barriere del tempo e dello spazio e permettendomi di viaggiare con il capitan Nemo 20mila leghe di viaggio sottomarino, di lottare con D’Artagnan, Athos, Portos e Aramís contro gli intrighi che minacciavano la Regina nei tempi del sinuoso Richelieu o di trascinarmi per le strade di Parigi, trasformato in Jean Valjean con il corpo inerte di Marius sulle spalle.
“La lettura trasformava il sogno in vita”
La lettura e il racconto trasformavano il sogno in vita e la vita in sogno e mettevano alla portata del piccolo uomo che ero io l’universo della letteratura.
Mia madre mi ha raccontato che le prime cose che ho scritto sono state continuazioni delle storie che leggevo perché mi dava pena terminassero o volevo cambiare il finale.
E magari è stato questo quello che ho fatto per tutta la vita senza saperlo: prolungare nel tempo, mentre crescevo, maturavo e invecchiavo, le storie che hanno riempito la mia infanzia d’esaltazione e avventure.
Mi piacerebbe che mia madre fosse qui, lei si emozionava e piangeva al leggere i poemi di Amado Nervo e di Pablo Neruda, e anche il nonno Petro, dal grande naso e calvizie lucente, che celebrava i miei versi, e lo zio Lucho, che mi ha animato tanto a dedicarmi corpo e anima alla scrittura, anche se la letteratura, in quel tempo e luogo, desse così poco da mangiare ai suoi cultori.
Tutta la vita ho avuto accanto persone così, che mi volevano bene e mi spingevano e mi contagiavano la loro fede quando dubitavo.
Grazie a loro e, senza dubbio, anche alla mia testardaggine e a un po’ di fortuna, ho potuto dedicare buona parte del mio tempo a questa passione, vizio e meraviglia che è scrivere, creare una vita parallela in cui rifugiarci contro le avversità che rende naturale lo straordinario e lo straordinario in naturale, dissipa il caos, abbellisce il brutto, eternizza il momento e rende la morte uno spettacolo passeggero.”
Queste splendide parole sono parte del discorso che Mario Vargas Llosa ha pronunciato nel 2010 a Oslo durante la cerimonia che gli ha ufficialmente assegnato il Premio Nobel per la Letteratura.
Il ritorno alla narrazione: una stagione felice
È indubbio che la narrazione viva una stagione particolarmente felice: romanzi, favole, novelle, racconti sembrano aver sostituito le antiche analisi sul mondo e sull’io.
La narrazione ha contagiato un po’ tutte le scienze umane: in pedagogia, in antropologia, in psicoanalisi, in sociologia, perfino nelle discipline dell’organizzazione, sempre più si fa ricorso al racconto come metafora esemplare in grado di spiegare o perlomeno rappresentare ogni realtà vivente.
Anche perché ci si è resi conto che il narrare è connaturale all’uomo così come il respiro, il cibo o la necessità della protezione. Un istinto primordiale che crea l’uomo come animale narrante.
Come ha scritto Enzo Perriello, “l’esperienza mostra continuamente che uomini e donne si compiacciono nel raccontare storie. Che i bambini chiedono storie prima di addormentarsi, che gli anziani amano ripercorrere narrativamente la propria o l’altrui vita, e che ogni impresa, lavorativa, familiare, sociale chiede una storia, una narrazione. Va da sé che non ci possono essere storie senza che qualcuno le racconti. E che le storie chiedono ascoltatori. Uomini e donne di ogni tempo hanno ascoltato, narrato ma anche creato storie, diventandone responsabili.”
Sappiamo che il racconto agisce a livello di adesione esistenziale, e che le idee che vengono offerte attraverso la modalità narrativa portano con sé la possibilità di essere provate, spingono a prendere posizione intorno a quanto narrato, a mettere in luce quel dire che avvicina alle cose, all’altro. Il raccontare o il prestare orecchio alle narrazioni fa uscire da sé stessi. In fondo, il racconto è modalità privilegiata mediante la quale si stabilisce una relazione, un incontro. Infatti, nel racconto interagiscono più storie: quella narrata, quella del narratore, quella dell’ascoltatore. Storie che possono integrarsi o respingersi, parzialmente o integralmente, ma che non portano alla neutralità, perché il racconto coinvolge, sempre.
La Bibbia, ovvero del racconto. Poesie, simboli, miti
Forse allora non è un caso che il narrare sia il modo di procedere tipico delle pagine bibliche. Nei testi biblici raramente si trovano argomentazioni, dimostrazioni, asserzioni dogmatiche. Si trovano invece poesie, simboli, miti, racconti.
Il narrare, scrive Brunetto Salvarani, “è forse l’eco della risata di Dio sulla terra, l’eco di quel ritornello ripetuto sette volte in Genesi 1 (Dio vide che tutto era bello e buono “tov“). La prima parola di Dio sul mondo riguarda la sua bontà e bellezza.”
La narrazione ha una funzione terapeutica, come per quel nonno storpio, nella storia narrata da Martin Buber. “A un rabbi, il cui nonno era stato discepolo di Baalshem, fu chiesto di raccontare una storia. Una storia, disse egli, va raccontata in modo che sia essa stessa un aiuto.
E raccontò che suo nonno era storpio ed una volta gli chiesero di narrare una storia del suo maestro. Allora raccontò come Baal-shem solesse saltellare e danzare mentre pregava. Il nonno, nel raccontare, si alzò ed il racconto lo trasportò tanto che cominciò a saltellare e danzare come faceva il suo maestro (dimenticando di esser storpio).
Da quel momento guarì. Così vanno raccontate le storie, così ascoltate, così scritte.” Il parlare del Dio biblico è poi un parlare creativo. Non sono parole vuote che si perdono nel vento ma si traducono in un avvenimento. Il primo credo ebraico, narrato in Deuteronomio 26,5-9, non è di tipo argomentativo ma è un credo narrativo (“mio padre era un arameo errante, vi stette come un forestiero, con poca gente e vi diventò una nazione grande forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri. E il Signore ascoltò la nostra voce…”). C’è qui la storia di un popolo che trasforma il ricordo in memoriale vivo e attuale.
Una relazione che ci tiene in vita
Veniamo da una stagione ecclesiale nella quale hanno prevalso nettamente le ragioni del dogma, contro quelle, ritenute poco valide, del racconto. La teologia narrativa è tornata sulla scena proprio nel tempo in cui si è arrivati al punto più basso della comunicazione. L’esigenza di tornare a narrare Dio ritraducendolo nella cultura di oggi è compito imprescindibile per una chiesa che voglia raccontare di un Dio fatto uomo. E di un uomo che per incontrare Dio ha bisogno di parole e di volti, di racconti e di legami. Perché, parafrasando Sequeri, “Dio non è un dogma che ci tiene in chiesa ma una relazione (una narrazione, diremmo noi) che ci tiene in vita”.