Partiamo con il Sinodo. Speriamo di sostanza, non solo di forma
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Perdita della memoria o di parte di essa, cioè relativamente a determinati ricordi.” Così dice il vocabolario della lingua italiana a proposito del sostantivo femminile “amnesia”. Termine rivolto da papa Francesco ai vescovi italiani riuniti in Assemblea la scorsa settimana all’Hotel Ergife di Roma (“Quando sono entrato in questo hotel ho fatto un cattivo pensiero: ma questa è un’assemblea dei vescovi o un concorso per eleggere il vescovo più bello?”). L’amnesia riferita ai vescovi ha a che fare con il processo sinodale che Bergoglio, in modi e occasioni diverse, da tempo chiede alla Chiesa italiana. Che, sino all’altro giorno, si era ben guardata dal metterlo in agenda. Un po’ per ragioni logistiche (soprattutto in tempo di Covid), un po’ perché la sinodalità è una parola da usare per fare bella figura ma complessa nel suo esercizio (e non mi pare che i cattolici italiani siano stati sufficientemente abilitati a viverla).
Eppure è una delle sfide e degli impegni più volte richiamati da papa Francesco. Ricordo, tra i diversi appelli, quello fatto al convegno della diocesi di Roma – era il maggio del 2019 – quando non esitò a dire ad alta voce il suo disagio per i lavori ancora fermi. Francesco spiegò che tutti avevano trovato il suo intervento a Firenze bello: “Che bello, quel discorso! Ah, il Papa ha parlato bene, ha indicato bene la strada”, dissero. “E dagli con l’incenso”, continuò Bergoglio. E ancora: “Ma oggi, se io domandassi: Ditemi qualcosa del discorso di Firenze – ‘Eh, sì, non ricordo…”‘ Sparito. È entrato nell’alambicco delle distillazioni intellettuali ed è finito senza forza, come un ricordo”. Papa Francesco l’ha poi ripetuto nel gennaio scorso durante l’incontro promosso dall’Ufficio catechistico della CEI: “Tornare al Convegno nazionale di Firenze” perché lì “c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo” . Ai vescovi italiani – settimana scorsa – l’ha sottolineato di nuovo, aggiungendo che quanto aveva chiesto anni fa, in occasione del primo incontro con i vescovi della Cei nel 2013, non è stato seguito da fatti concreti: “Sono passate tante cose dal primo incontro” e c’è una cosa “che ho visto: l’amnesia. Perdiamo la memoria di quello che abbiamo fatto, Firenze”.
Francesco ha anche indicato una novità (che dovrebbe diventare un vero e proprio metodo di lavoro): dal Sinodo evento al Sinodo processo. Un Sinodo che deve partire “dalla saggezza del popolo di Dio, che è infallibile in credendo. La luce viene da Firenze, da quell’incontro, ma poi il Sinodo deve cominciare dalle piccole comunità. Pazienza, lavoro, far parlare la gente.” Il papa cioè vuole rovesciare la piramide e partire dal basso in ascolto della realtà anzitutto (che è superiore all’idea) e in ascolto dei fedeli delle parrocchie, del “sensus fidei” del popolo di Dio che ha più volte richiamato durante il suo pontificato. Un discernimento comunitario per trovare insieme la postura più adeguata per vivere il Vangelo dentro questo nostro tempo.
Certo, il Sinodo obbligherà la barca della Chiesa a navigare in mare aperto. Quasi sicuramente –e forse questo spaventa alcuni – emergeranno questioni e problemi non preventivati alla partenza perché “il tempo è superiore allo spazio”. Anni di oggettiva diffidenza e difficoltà dentro le nostre comunità cristiane a far crescere luoghi autentici, non paludati, di ascolto e di dialogo non renderanno agevole il percorso che chiede, già da adesso, alle diocesi (anche alla nostra) di cominciare a ragionare su come avviare il processo. Reale e non finto, di sostanza non solo di forma.
Eppure non è questa la vocazione dei cristiani? “Servire la vita dove la vita accade”, ha scritto il nostro vescovo Francesco. Quella vita che accade quasi mai dove decidiamo noi che debba essere. E dove sempre c’è profumo di Vangelo.