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Padre Dall’Oglio, undici anni dopo

Padre Dall’Oglio, undici anni dopo

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Undici anni fa veniva rapito Padre Paolo Dall’Oglio, in Siria.
La sua storia, i suoi ideali, il suo straordinario coraggio.
Il suo sogno, di un cristianesimo che si confronta, in mezzo all’Islam

Sono trascorsi undici anni da quando, il 29 luglio 2013, il padre gesuita romano Paolo Dall’Oglio venne rapito a Raqqa, dopo trent’anni di lavoro per il dialogo e la convivenza tra le diverse confessioni religiose in Siria.

Era appena rientrato nel Paese, che aveva dovuto lasciare nel 2012 su richiesta della Chiesa e delle autorità civili, dopo che il suo monastero, Deir Mar Musa, era stato oggetto di un’irruzione da parte di uomini armati. Il governo siriano non vedeva di buon occhio l’attività di padre Dall’Oglio, pubblicamente critico verso le repressioni del regime, e a novembre 2011 aveva minacciato la sua espulsione, concretizzata poi il 16 giugno 2012. Paolo aveva deciso di rimanere in Siria fino a quando fosse stato possibile, ma a quel punto fu costretto a partire, anche se la sua lontananza dal Paese sarebbe stata breve.

Sono stato più volte in Siria ad incontrarlo, ospite della sua comunità. Questo è il resoconto di alcune chiacchierate con lui.


“Ho vissuto negli anni della contestazione studentesca e da anima inquieta, sempre alla ricerca di un significato forte da dare alla mia vita. Mio padre era un dirigente nazionale della Democrazia Cristiana. Io, come tanti altri della mia generazione, ero convinto (e lo sono tutt’ora) che non si potesse essere cristiano e non battersi per la giustizia. Dopo essermi impegnato su vari fronti, nel 1975 sono entrato nella Compagnia di Gesù. Ero già affascinato dal mondo arabo, con cui avevo avuto un primo contatto durante un viaggio in Siria compiuto via terra da studente e un pellegrinaggio in Terra Santa. Chiesi di essere inviato al mondo islamico e nel 1977 l’allora Padre Generale Pedro Arrupe mi accontentò inviandomi a Beirut a studiare. Là il mio superiore era Peter-Hans Kolvenbach“.

Giovane inquieto, gesuita, innamorato dell’Oriente

“In Libano mi scontrai con la realtà mediorientale. Dopo gli studi di teologia in Italia, nel 1980 ero a Damasco a studiare l’arabo. Non avevo elaborato niente a livello cosciente, per questo dico spesso che è stato il mio futuro ad attrarmi” A parlare così, sotto una grande tenda dove vengono accolti i visitatori a Mar Musa, in Siria, è  Paolo Dall’Oglio, un gesuita romano. Per arrivarci, la macchina mi porta in pieno deserto, ad un’ottantina di chilometri a nord di Damasco, e si ferma davanti ad un sentiero stretto che sale verso la montagna. Dopo essere salito quasi quattrocento gradini, a 1300 metri di altezza, attraversato una piccola porta entro in questo particolarissimo e straordinario monastero.  

Come sei arrivato qua? gli chiedo. “Nell’estate del 1982 mi capitò tra le mani una vecchia guida della Siria e lessi di questo luogo, dell’antico monastero e delle tante grotte che avevano ospitato numerosi eremiti. Decisi di venire qui a fare i miei esercizi spirituali annuali. Con lo zaino in spalla arrivai alla piccola porta. Era ormai quasi buio. La prima cosa che feci fu varcare la soglia della chiesa e subito sentii su di me lo sguardo dei santi raffigurati negli affreschi dell’undicesimo e dodicesimo secolo. Alzai gli occhi e vidi il cielo stellato che mi sovrastava: il tetto non c’era più, crollato chissà quando. Fu un amore a prima vista. Sentii di essere giunto alla meta, nel luogo prescelto per me in questo arido deserto custode delle storie di tanti eremiti. Terminati gli esercizi, lasciai Deir Mar Musa sapendo che quello non era un addio.”

“Una povera Chiesa di cristiani ai bordi del deserto”

Da quel giorno, sono passati quasi trent’anni e Paolo ha mantenuto la promessa. Dopo gli studi islamici a Damasco e all’Orientale a Napoli, ordinato prete nel 1984, da gesuita decide di radicarsi in una Chiesa locale d’Oriente, “di quelle che erano sopravvissute alla profezia coranica e per secoli avevano coabitato con essa”. Sceglie il rito della Chiesa siriaca, “apostolica, semitica, popolare, una povera Chiesa di cristiani ai bordi del deserto, che non è mai stata imperiale” e la cui liturgia, “senza transitare per la lingua greca, ha assunto l’arabo, la lingua sacra dell’islam, conservando inni e preghiere in lingua siriaca (o aramaica) parlata da Gesù stesso”.  

Nel frattempo si è dato un gran dare per restaurare e far rinascere il monastero ma soprattutto per dar vita ad una comunità monastica, maschile e femminile, che porta il nome di Al-Khalil, ovvero “l’amico di Dio, Abramo”.  Oggi i membri della comunità sono sette, cattolici e ortodossi, uomini e donne, e, oltre ai due monasteri di Mar Musa e Mar Elian (situato a Qaryatayn, ad una cinquantina di chilometri da Deir Mar Musa), contano uno studentato a Cori, in Italia, dove vivono tre confratelli, allievi della Gregoriana.

Continua padre Paolo: “Qui da noi nessuno rifiuta le proprie origini, ma vogliamo essere una comunità monastica cattolica di spirito ecumenico. Vogliamo praticare una larga ospitalità eucaristica tra cristiani. Cerchiamo di valorizzare le particolarità dell’esperienza e delle tradizioni altrui. La nostra vita monastica ha il suo punto di forza nel dialogo con la religione maggioritaria, l’Islam.”

Preghiera, lavoro manuale, ospitalità. Nel cuore dell’Islam

La piccola comunità monastica si raccoglie attorno a tre “priorità”: preghiera, lavoro manuale (olive, capre, carne e formaggio, lavori in cucina, biblioteca) e ospitalità, “che nel mondo semita, arabo e d’origine nomade, è la virtù più alta”. Niente di originale: Ora et labora. Se non fosse che si è nel cuore dell’islam. E che gli ospiti a cui Paolo apre le porte del monastero sono soprattutto i figli e le figlie della Umma islamica. Quelli che ogni giorno ripetono almeno cinque volte, ad Allah grande e misericordioso, quell’affidamento alla misericordia divina senza il quale nessuno può piacere a Dio

Eppure il rapporto tra cristianesimo e islam non è tra i più facili…

Credo profondamente che Dio sia stato generoso. Ha creato gli uomini all’interno di nazioni, di tribù e di appartenenze religiose diverse. In tutto questo sta, sicuramente, una saggezza. Dio accetta che, a causa del nostro limite, la sua divinità sia umiliata nel dogmatismo settario, nell’ideologia chiusa e nella visione manichea. Dio si lascia umiliare nelle anime dei suoi figli. E’ vertiginoso. Lui che è disceso in fondo a ogni  anima resta attivo in ognuna, continua ad appassionarsi per gli sguardi spenti e li riaccende.

Nella Chiesa noi crediamo, e abbiamo ragione di credere, che il mistero di Gesù di Nazareth sia perfettamente adatto all’uomo, che il linguaggio della Chiesa, ispirato dallo Spirito Santo, sia adeguato al mistero. Eppure, questo mistero ci supera sempre, non si lascia catturare facilmente! Per questo mi chiedo: cos’è questa paura di “farsi battere”? Smettiamola di aver paura… La verità è sempre complice della verità. Ogni atomo di verità è complice di qualsiasi altro atomo di verità: tutto è coordinato già da prima e tutto si accorderà sempre più. Non bisogna mai odiare la verità con il pretesto che la si vede negli altri! I doni che riceviamo, i nostri talenti, non sono fatti per distinguerci gli uni dagli altri, ma per essere condivisi.

Gesù non è figlio di Dio per dimostrarci che noi, poveri uomini, non lo siamo. Al contrario, è figlio di Dio per procurarci la sensazione di essere anche noi suoi figli. Se la Chiesa crede alla salvezza per i suoi fedeli, allora è assurdo escludere l’immensa massa di non cristiani! Ho fiducia nel fatto che, attraverso il dialogo, la Chiesa scoprirà l’attività dello Spirito nelle altre tradizioni, capirà l’atto compiuto da Dio in quella rivelazione polemica che l’islam rappresenta nella storia dell’umanità. La luce avanza in ognuna delle numerose tradizioni della religione umana.

Fino a poco tempo fa si credeva che tutti fossero chiamati alla Chiesa. Oggi ci stiamo accorgendo che non è affatto vero. Dio sembra piuttosto confermare gli altri nella loro tradizione religiosa. Vivono felici, realizzati, cercano perfino di convertirci!  Tutto questo, naturalmente, solleva questioni, angosce, curiosità. 

Mette in gioco il rapporto  tra identità e differenza…

L’identità, il riconoscimento dell’identità cristiana, ha una sua particolarità che non è opposta alle altre identità ma è già in relazione con esse. L’autocoscienza identitaria cristiana è quella di portare un mistero dinamico tendenzialmente universale non attraverso il superamento delle identità altre ma attraverso la valorizzazione in Cristo (la glorificazione) della storia culturale e religione delle diverse particolarità identitarie anche nella loro pretesa di universalità, nel loro desiderio di cattolicità (come nel caso dell’Islam).

Questo può e deve valere anche nella catechesi. Se il bambino cristiano può capire il corpo di Cristo (mistero magnifico ma difficile), se può capire la comunione dei santi, perché non può capire che Gesù di Nazareth è radicabile, rinnovabile, restituibile in tutte le particolarità umane? Ma il vero lavoro bisogna farlo con gli adulti. Occorre capire che se si educa al Vangelo si educa all’incontro. Oggi invece, a volte anche nella Chiesa, impera la trasversalità del pensiero unico, che riduce ad uno, al pensiero “cattolico”. Che per natura invece, nel suo incarnarsi progressivo, è “plurale”.

In questo modo non si annacqua la “differenza cristiana”?

No! Io so che annuncerò fino alla fine l’Evangelo di Gesù. Ma so anche che, di fronte a me, un musulmano non si stancherà di annunciare, con la stessa intensità, la profezia del Corano. Qui, in mezzo ai credenti musulmani, ho imparato che l’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno a essere un pellegrino di verità, non limitarlo all’interno del suo contesto, valorizzare la sua esperienza di Dio. 

Sulla scia di Massignon, il “cattolico mussulmano” come lo chiamò papa Pio XI, o  di Charles de Foucauld…

Il loro lavoro di “dissodamento” potrebbe durare ancora secoli prima di dare i suoi frutti. Poco importa! Non abbiamo fretta… Vediamo molto bene il nostro limite come esseri umani. Che cosa fa Charles de Foucauld nel cuore dell’Algeria? Non converte nessuno, si posiziona là, semplicemente, come un granello di lievito. Con pazienza e umiltà, la sua avventura si fa cristiana; compie piccoli passi dietro a Gesù. Come lui, anch’io cerco di vivere vicino ai musulmani, di accoglierli in profondità, dolcemente, per provare l’universalità del messaggio di Cristo. Spingo questa logica più lontana che posso, senza sapere dove ci condurrà. Penso che i risultati stupiranno tanto i musulmani quanto i cristiani, alla fine dei tempi. 

Non hai l’impressione di andare controcorrente?

Sì, ma non è questo che mi preoccupa. Mi preoccupa piuttosto l’inevitabilità dello scontro che ci stanno prefigurando. La guerra ci sarà perché la sventura è contrabbandata continuamente nei libri, nei mezzi di informazione, nei media. L’altro è rinchiuso nell’immagine stereotipata e pregiudiziale. Per un gioco di specchi il nostro integrismo si specchia in quello mussulmano, il nostro fondamentalismo si specchia nel fondamentalismo mussulmano. 

Cosa sogni per il  cristianesimo siriano?

Sogno una presenza di minoranza nel mondo musulmano, spiritualmente e teologicamente contenta di essere tra loro, di essere per loro, di essere con loro. Qui a Mar Musa scommettiamo su un cristianesimo orientale residuo, che non resti per tradzionalismo, reliquia residuale, ma per convinzione vocazionale: è il nostro privilegio. D’altronde, in Siria da quattordici secoli cristiani e mussulmani vivono insieme. E questa commensalità vorrà pur dire qualcosa! 

Come San Francesco a Damietta, insomma…

Sì, in mezzo al divampare delle Crociate Francesco ha profetizzato il fallimento della soluzione militare e ha annunciato una via molto diversa per portare Cristo nella tenda del sultano. Sia chiaro, noi non siamo qui ‘in cerca di martirio’. Ci sentiamo molto vicini ai sette monaci trappisti dell’Atlante, che poi il martirio l’hanno effettivamente subìto, ma erano andati in Algeria per instaurare una relazione di amicizia e fraternità, in nome di Cristo, con i musulmani. Se solo sapessimo ammirare l’enorme lavoro di Dio in ogni uomo, in ogni tradizione, in ogni famiglia umana!

 

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