Mete dello spirito I: Le Allodole
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Alcuni anni fa, Daniele Rocchetti ha pubblicato un libro “Cercare Dio. Un viaggio per monasteri” (EDB). Proponiamo oggi una “Tappa”
L’incontro con questo piccolo gruppo di donne vestite di una tunica azzurra è stato uno dei più belli della mia vita. In un caldo giorno d’estate, ho lasciato la macchina a Pigge, un paese non lontano da Trevi, vicino alle Fonti del Clitumno e sono salito a piedi, attraverso olivi secolari, fino ad un portone di legno. Lì ho suonato la campana.
Entrando in un antichissimo eremo, visitato da san Francesco e da san Bernardino da Siena, nel vasto piazzale alberato dove in fondo si intravede una piccola chiesa romanica, mi sono venute incontro le «allodole» (così si fanno chiamare), pronte ad offrirmi un bicchiere di acqua e sambuco e, insieme, un frammento gioioso e liberante di un’esperienza monastica particolare.
Una piccola comunità di donne, apparentemente tagliate fuori dalla storia eppure, nel corso degli anni, capace di tessere amicizie e relazioni straordinarie. La comunità ha avuto rapporti vari con Ernesto Bonaiuti, l’intellettuale modernista e prete scomunicato, con don Primo Mazzolari, con il comunista Ambrogio Donini e padre Turoldo. Ma anche con personalità straniere come Paul Sabatier, il biografo di santo di Assisi, Friedrich Helier e soprattutto con Albert Schweitzer (al quale le sorelle tessevano e spedivano bende per il lebbrosario di Lambarenè) e il Mahatma Gandhi che, fino alla fine, ebbe una fitta corrispondenza con le sorelle e che nel dicembre del 1931, durante il suo viaggio a Roma, trovò il tempo di passare mezz’ora di tempo con le “allodole”. Padre Vannucci scrisse un giorno che: «L’eremo è stato uno dei doni più grandi che il Signore mi ha concesso, la terra dove il sogno e la missione del monachesimo trovano un compimento che aiuta a sperare e a vivere». Altri amici sono meno noti, ma ugualmente significativi. Quasi tutti sono espressione di un cristianesimo libero e gioioso.
Sette rose per poche sorelle
Tutto ha inizio, attorno al 1920, quando sorella Maria, francescana missionaria e superiora del gruppo di religiose che nell’ospedale angloamericano di Roma si occupava dell’assistenza dei feriti della prima guerra mondiale, dopo 18 anni di convento, si sente chiamata ad uscire dall’Istituto per vivere una vita meno strutturata, più aperta all’incontro.
Non c’è contestazione nel suo gesto. Vuole solamente una vita fraterna, regolata e custodita dalla disciplina religiosa, senza voti o alcun legame canonico, per mantenere vivo il senso di libertà proprio dei figli di Dio. Dopo tre mesi, un’altra sorella la raggiunge mentre ancora lei non sa dove andare.
Ospite di un prete di Montefalco, sorella Maria scopre un antico convento francescano addossato un monte e spedisce in esplorazione alcune persone. La sconsigliano perché il luogo è abitato da lupi e da altri numerosi animali. Le portano però sette rose francescane. Ella vede, in quel piccolo dono, la speranza a cui è chiamata e decide di comperare l’eremo. Aiutate da alcuni uomini dei paesi vicini e, soprattutto, dal denaro procurato da sorella Amata, di fede anglicana, le sorelle lo restaurano e nel 1926 si installano.
La ricerca è finita: ora può iniziare una vita cristiana, una vita fraterna di spirito monastico antico, su radici benedettine e francescane. Fino al 1940 le sorelle (che erano oramai diventate cinque) non riescono a passare l’inverno all’eremo a causa del troppo freddo. Manca la corrente elettrica, l’acqua potabile è portata a dorso di mulo, non esiste telefono Poi, poco a poco, vi si stabiliscono definitivamente.
Né monache né suore: solo donne
Sorella Maria non ha soldi, né salute, né protezione. Scrive un giorno:
Noi dobbiamo accettare in tutto la povertà. Non solo nell’incertezza costante del domani, ma anche nell’umiliazione dei debiti. E dobbiamo aver fede, aver fede, aver fede che riusciremo poco alla volta, gocci a goccia a dare ai creditori. Io non ho un capo di casa cui ricorrere. E ho figliole cui provvedere. E non ho nulla, come la vedova, solo un po’ d’olio nel vasetto, per la lampada che non deve spengersi mai. Ma dinanzi a me c’è Uno più grande di Eliseo. Egli moltiplicherà la goccia di olio nei vasi, mi dirà: và, vendi l’olio, paga i creditori; e del restante sostentati tu e le tue. Tutto dipende dalla nostra fede.
Lo scopo della vita in comune è all’inizio (come oggi, del resto) quello di vivere come Gesù e di servire tutti. Le sorelle non hanno nessuna pretesa di voler fondare una nuova congregazione: desiderano soltanto essere cristiane recuperando lo spirito monastico antico. Si rifanno esplicitamente a santa Chiara e a san Francesco. Vivono la clausura senza chiusura. C’è una disciplina senza apparato di autorità e senza aiuto dei mezzi tradizionali, come i voti, la regola. Non sono né “monache” né “suore”, ma solo “donne” che cercano di vivere come Gesù, con essenzialità e semplicità.
Anche se non sono monache nel senso specifico della parola, lo sono nel senso essenziale. Osservano i quattro punti cardini del monachesimo: la preghiera, lo studio, il lavoro, la comunione fraterna. Vivono insieme per aiutarsi con il lavoro, con l’affetto, con la preghiera comune. Accettano la carità da tutti e, a loro volta, la praticano con i molti poveri che bussano alla porta dell’eremo. Svolgono il servizio fraterno a chiunque chieda di essere accolto qualche giorno.
Le consuetudini disciplinate
Per favorire la vita comunitaria si danno una serie di «consuetudini disciplinate» che mai devono essere considerate un “fine” ma sempre e solo un mezzo per una vita autentica e fraterna.
La prima di queste è il silenzio; sorella Maria lo chiama «il guardiano che permette la comunione con Dio e i fratelli». Esso prepara la preghiera, alimenta la contemplazione, abitua al dominio di sé. All’eremo risuona come una nota di pace. E` aiuto per chi vive tra il continuo parlare e il rumore della vita quotidiana. Non solo il “silenzio sacro”, dalle 10 alle 9 e un quarto del mattino, ma anche quello lungo la giornata che rende più attenti al lavoro e allo studio.
Poi vi è la comunione con i poveri che, attraverso il fraterno interessamento ai loro bisogni, è un impegno sacro. Le sorelle vivono anche l’impegno dell’ospitalità. Accolgono, come dice sorella Maria “l’amico e il contrario”. Rispettano le varie posizioni religiose: sin dall’inizio, all’eremo, vive una sorella anglicana; in seguito, sarà accolta una presbiteriana. Un’ospitalità cercata a perseguita ma pagata a caro prezzo se, per molti anni, attorno alla piccola comunità di donne aleggerà il pregiudizio di essere un cenacolo “protestante e modernista”.
Sorella Maria amava ripetere di essere attratta da tutto e desiderosa di attingere da tutto e, già nel 1942, scriveva: «per me – la fraternità riverente verso le chiese cristiane… verso ogni esperienza religiosa sincera, seppur diversa dalla nostra, è mandato inflessibile ed anche luce sul cammino». Ed ancora: “Siamo discepoli dinanzi a Cristo e dinanzi ai Santi. Noi impariamo dal Poverello, da San Benedetto, da Gandhi, da Budda… Importante è essere discepoli, imparare da tutti e venerare il patire di tutti”.
La terza consuetudine è quella dell’ordine, che significa cercare, nella povertà e nell’essenzialità, di dare armonia all’eremo, ma soprattutto alla vita. L’ordine è una forza, senza cui la virtù non basta. Nel piccolo chiostro del convento vi è scritto: «Che cos’è Dio? L’ordine, rispondono le stelle». Le allodole cercano di vivere una cura attenta ad ogni particolare ed a ogni oggetto «come fosse vaso sacro». Sorella Maria diceva che questo era il «sacrum facere», l’essenza della religiosità. Non una serie di atti, ma un perenne stato d’animo per fare le cose più semplici come atto d’amore… e questo diventa preghiera senza fine…
E’ quello che un grande amico della comunità – padre Giovanni Vannucci – dirà poco prima di morire: «Il compito religioso è tutto nel raggiungere la pura semplicità». E la «pura semplicità», per le Allodole, altro non è che la scoperta del granello di senape in noi stessi, “la liberazione da tutte le erronee sovrastrutture personali e sociali che ne soffocano la crescita, è un cuore dilatato che permette di avvicinare ogni essere, da Dio alla fogliolina fragile, con amore e devozione completa” (Morozzo della Rocca).
Pura semplicità» che aiuta a scoprire, in tutto ciò che esiste, il punto verginale che è la presenza di Dio nelle creature e l’altare dove viene celebrata la comunione dell’Invisibile con il visibile. Come a dire, la pura semplicità non è un vuoto, è una sintesi… Quando sono salito la prima volta all’Eremo e ho incontrato le sorelle, sono rimasto stupito dalla mancanza, nel loro vocabolario, di termini come penitenza, sacrificio, rinuncia… Termini importanti in molte comunità monastiche che avevo incontrato. Mi hanno risposto con le parole di sorella Maria:
Io penso che la vita di Gesù sia stata di innamoramento, di amore, non di ascesi… Accettare la nostra vita come si presenta e farlo lodando Dio già questo è importante… Non sono mai riuscita a capire la necessità di inventare altre cose… Ho sempre e solo desiderato essere libera figlia di Dio, simile agli uccelli del cielo e ai gigli dei campi…”
L’immersione nel cielo
E poi la consuetudine “del camminare all’aperto, con attenzione ad ogni creatura”. Una gioia più che un dovere. Come la preghiera del resto. Molto semplice, “breve e pura. Perché le formule ripetute stancano.” Le sorelle attingono ogni giorno alle Scritture e alla liturgia, come le allodole prendono un piccolo chicco che permette loro di vivere e di lodare Dio. Studiano i salmi a memoria, ma cercano di fare della loro vita una liturgia. Danno parecchio spazio alla preghiera fuori, in «madre natura». Per questo camminano all’aperto. Pregano spesso nel giardino e nei campi posti fuori dall’eremo, all’alba e al tramonto, per poter essere vicino alle cose, senza intermediari
Infine vi è l’agape, l’amore fraterno. Costituisce la disciplina di queste donne: è considerato il regno di Dio fra di loro e dentro di loro. E già l’immersione nel cielo e la vita senza fine.
Agape è una parola greca che significa «amore» e i primi cristiani l’adoperavano per indicare il convito fraterno in cui facevano memoria della cena del Signore. E lo sentivano presente, e lo aspettavano sempre. Sì, pure noi dobbiamo imparare ad aspettarlo sempre, perché quando siamo concordi egli viene, prende il pane, lo benedice e ci alimenta di sé attraverso il pane. Così ci insegna l’amore. Dire al fratello chiunque egli sia: entra e resta con noi, dividi la nostra mensa! Ci prepara a riconoscere Gesù!
A queste consuetudini, se ne aggiungono altre che hanno il compito di esprimere il senso di gioia e di festa che deve risuonare nella vita comune dell’eremo: i sorteggi di santi da imitare e di virtù da perseguire durante l’anno; le feste con i pastori della zona; i cambi d’abito ai passaggi di stagione (grigio d’inverno, azzurro d’estate per sottolineare l’armonia con il cielo); le attenzioni particolari e raffinate per le sorelle malate; il gusto, in alcune occasioni speciali, per la cura della mensa. Il vezzo di chiamare la “stanza dei gigli” il guardaroba, “San Basilio” la cella, Tarcisio, Santa Chiara, Angelo Raffaele i tavoli del refettorio. E poi la passione per la danza, il canto, la musica.
Non ci apparteniamo
Nel corso degli anni le sorelle (il loro numero non è mai andato oltre le quindici unità) supereranno molte difficoltà, anche economiche. Esse lavorano con le loro mani. In silenzio ogni settimana fanno il pane (simbolo dell’agape), curano la casa, l’orto, il pollaio. Hanno due telai, dove, soprattutto d’inverno, cercano di tessere gli abiti, ricamano. Insomma, cercano di essere, almeno il più possibile, autosufficienti. E poi accolgono con gioia gli ospiti, curano la corrispondenza, che è per loro realtà di comunione con gli assenti. Il legame con i tanti amici dell’eremo le rende interessate e partecipi ad ogni esperienza umana.
Come a voler dire che il volto dell’altro è l’icona di Dio più evidente. Un giorno sorella Maria disse alle piccola comunità: «Sorelle, io vorrei che cantassimo fra noi e ripetessimo sui tetti, e tutti nel mondo ci sentissero: “Guai a chi vive solo per sé”». Guai a noi se vivessimo solo per noi. Noi non ci apparteniamo. Noi, di tutto ciò che abbiamo: la gioia della solitudine, della semplicità, della libertà cristiana, dell’unione fraterna… vogliamo far parte ai fratelli. E di tutti i pesi dei fratelli, del peso della miseria… dell’eccessivo e logorante lavoro, della fragilità delle nostre forze, noi vogliamo aver parte, aiutando quanto Dio ce ne dà grazia…”
Sospese ad un raggio di sole
Cosa è rimasto di questo straordinario cenacolo che qualcuno ha voluto vedere come precursore del Vaticano II? Di una comunità di donne che, in tempi non sospetti, ha cercato il ritorno alle fonti, il dialogo ecumenico, il confronto leale con uomini e donne di religioni diverse?
Sorella Maria muore nel 1961 ma l’esperienza, che ha innervato in modo robusto molti testimoni di fede del Novecento, non è terminata. Oggi sul monte, nell’antico convento, vivono alcune giovani sorelle guidate da Daniela Maria che ha condiviso diversi anni con sorella Brigitte, l’ultima dell’antico nucleo, morta il 26 novembre del 2006. Non hanno pretese di diventare numerose: si sentono pellegrine sulla terra. Vogliono – lo ripetono spesso – essere sospese ad un raggio di sole. Un giorno sorella Jacopa chiese a sorella Maria: «Che cosa resterà di noi?» Le fu risposto: «L’eco di un canto di allodola in un cuore che l’ha ascoltata. Nessuna cosa umana è permanente, solo l’amore lo è.”
Un’amicizia francescana
Nei mesi scorsi, la casa editrice Morcelliana ha pubblicato un testo prezioso, Maria di Campello. Un’amicizia francescana. Il volume, curato da Roberto Morozzo della Rocca, raccoglie una serie di saggi che presentano alcune amicizie di sorella Maria. Con il Mahatma Gandhi, con Ernesto Buonaiuti, con don Primo Mazzolari, con Albert Schweitzer. Amicizie “senza confini”, create con semplicità francescana, con sensibilità mistica, con finissima percezione dell’altro, con anelito alla libertà in senso cristiano. Fin dall’adolescenza, un’espressione dell’Imitazione di Cristo l’aveva segnata: «Nessuno è più libero dell’uomo che nulla desidera sulla terra». E alle compagne diceva: «La libertà assoluta è riverenza del mistero e distacco assoluto». Era questa libertà a darle uno stigma d’universale che Francesco d’Assisi avrebbe forse riconosciuto come familiare e che oggi sussiste nella terza generazione delle sue eremite.