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La Polonia, quella di Solidarnosc e quella di oggi

La Polonia, quella di Solidarnosc e quella di oggi

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana] 

In Polonia si è manifestato, a 34 anni dalle prime elezioni semilibere.
Al centro degli eventi di allora c’era Lech Walesa.
Intervista al leader di Solidarnosc

Il 4 giugno scorso era ancora a Varsavia in prima fila al corteo che, secondo la stampa, era composto da almeno mezzo milione di persone. Una data non casuale, perché trentaquattro anni prima, lo stesso giorno, si tennero le prime elezioni semilibere in Polonia. Allora Lech Walesa, leader di Solidarnosc, si batteva contro un sistema dittatoriale in agonia, oggi contro la “democratura” del partito di governo  polacco che, spesso strumentalizzando la fede cristiana, giustifica derive autoritarie e nazionalistiche. Anni fa Lech Walesa venne invitato da Molte Fedi. Fu l’occasione per questa intervista.

Al bavero della giacca c’è ancora la Madonna di Jasna Gora, come quando saliva sui cancelli di Danzica. Lech Walesa, Premio Nobel per la pace, ex Presidente della Polonia. Ma per molti rimane l’ elettricista di Danzica che, nell’agosto del 1980, fu messo a capo di un movimento che ebbe il coraggio di avviare una lotta e una rivoluzione diverse da tutte le precedenti.

Una rivoluzione paradossale, fatta da operai contro un potere che si reggeva su un’ideologia rivoluzionaria e operaista. Una rivoluzione dalle salde radici popolari e cristiane contro un regime imposto da una potenza straniera nel segno dell’ateismo. Quelle migliaia di tute blu inginocchiate durante la messa celebrata all’interno dei cantieri fu uno spettacolo sconvolgente che rimbalzò sui teleschermi di tutto il mondo. Uno spettacolo di fierezza e dignità, una forza tranquilla che rifiutò anche il più piccolo gesto di violenza, un movimento di popolo cui giunse con un messaggio pieno d’affetto il deciso sostegno di Giovanni Paolo II, il Papa polacco più che mai vicino alla sua nazione in lotta «per il pane e per la dignità».

Uomini e donne che mettevano in gioco la loro stessa vita per chiedere la libertà. Che raccontavano ad un mondo impaurito della possibile reazione sovietica, che i sogni, le speranze, contavano più dei soldi, più dell’ideologia. Che occorreva avere ragioni grandi per dare un senso alla vita e alla storia. E per sottolineare che le persone, i volti, erano e sono più grandi e importanti di qualunque ideologia e che nessuno poteva azzerrarli. Con la nascita di Solidarnosc  si spalancò un’epoca nuova per la Polonia e per il mondo. Trent’anni dopo, Lech Walesa, che incontro durante un giro di conferenze in Italia, è certamente ingrassato ma conserva la passione e una convinzione: se a Danzica la storia è cambiata è perché lì stava gente con un cuore nuovo.

Lei ripete spesso che il comunismo è caduto nel 1980 non con il crollo del Muro nel 1989

E’ vero: credo che il comunismo sia caduto nel 1980, quando, per la prima volta, abbiamo portato via al regime la propaganda. Fino a quel momento tutte le volte che i popoli hanno cercato di liberarsi (ricordiamo la rivoluzione ungherese del ’56, la primavera di Praga del ’68, le rivolte in Polonia del 1956, del 1968, del 1970 e del 1976), il potere, dopo aver risposto il più delle volte con la violenza, ha sempre cercato di distruggerci, spesso con successo, usando la propaganda: organizzando contromanifestazioni orchestrate dall’alto per poter definire l’opposizione una ridicola minoranza insignificante.

Riuscivano sempre a metterci in un angolo. Nel 1980, per la prima volta, abbiamo dimostrato alla nazione e al mondo che eravamo più numerosi di loro, che loro non ci avevano mai rappresentato e mai lo avrebbero fatto. Il regime non fu in grado di organizzare nessuna contromanifestazione e controinformazione. Questa è stata la prima sconfitta del comunismo. Poi c’è stata la seconda: per la prima volta in un paese comunista era nata un’organizzazione legale indipendente dal partito. Dopo le altre nazioni ci hanno seguito e hanno buttato giù il Muro. Ma solo dopo che i polacchi hanno stretto i denti e anche nei momenti più duri non hanno ceduto su quei due punti.

Come mai tutto questo è avvenuto in Polonia?

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la Polonia si trovava nell’orbita sovietica ma non ci siamo mai rassegnati a questo stato di cose. Chi ci conosce, sa bene che siamo un popolo orgoglioso e democratico. Da noi si dice che dove ci sono due polacchi come minimo ci sono tre partiti politici e, invece, ci fu imposto un partito unico. Stalin stesso amava dire che il comunismo aderiva ai polacchi come una sella da cavallo aderisce ad un maiale. Cosi negli anni Cinquanta, abbiamo tentato di  liberarci da questo fardello ma abbiamo fallito. Negli anni Sessanta e Settanta ci sono state le prime dimostrazioni, i primi scioperi, nelle strade si sono riversati prima gli operari e poi i lavoratori. Abbiamo imparato dagli errori commessi e, tutti insieme, abbiamo maturato l’idea di Solidarnosc.

Anche in quel caso i comunisti non cedevano e il tempo passava.  Lo sconforto era grande. Ma accadde una cosa imprevista: un polacco fu eletto al soglio pontificio. Circa un anno dopo la sua elezione papa Woityla venne in visita in Polonia. All’improvviso l’intero mondo ha girato gli occhi sulla Polonia, con sguardo stupito si domandava che cosa stesse accadendo in quello stato comunista. Cinquant’anni di comunismo e di ateismo. Eppure, imparammo a pregare, ci mettemmo in ginocchio.  I comunisti erano molto costernati, entrarono in panico. Fu l’inizio della fine. Qualcuno cercò di riformare quello che era irreformabile perché non si poteva più tollerare un sistema che non dava dignità all’uomo. Anche se diceva di voler essere dalla parte dei lavoratori.

Come ricorda l’amicizia con Giovanni Paolo II?

Siamo cresciuti mangiando lo stesso pane. Spesso non dovevamo neppure parlare per capirci. Dal punto di vista politico tutti gli incontri con lui sono stati importantissimi, spesso hanno fatto vedere al mondo intero che Lech Walesa era ancora vivo. Dal punto di vista personale ogni incontro è stato una felicità enorme, anche se a volte la coscienza mi rimordeva: sapevo che c’erano altre persone molto più importanti di me che avevano bisogno di lui e aspettavano. Mi sembrava di portargli via tempo prezioso.

I nostri colloqui non sono mai stati di tipo strategico-politico, non abbiamo mai fatto programmi su quello che volevamo raggiungere. Di solito, dopo un primo affettuosissimo saluto, io gli dicevo le cose che mi stavano a cuore e che pensavo lui volesse sapere, e quando vedevo che cominciava ad agitarsi sulla sedia, capivo che ne aveva abbastanza. E lui faceva lo stesso con me. Erano strani quei nostri colloqui. Però, sono sempre stati il dialogo di un figlio con il padre. Erano incontri di due persone che avevano una totale fiducia l’una nell’altra, e soprattutto condividevano la stessa fede. Non ci sono mai state istruzioni, direttive. Il Santo Padre sapeva bene quello che doveva fare, e a me lasciava la totale responsabilità del mio compito.

Come giudica quella stagione?

Molte cose le abbiamo fatte in una maniera incredibile: solo una profonda fede, solo lo spirito e la convinzione nelle idee, fino al punto di mettere in gioco la nostra stessa vita,  ha permesso di continuare la lotta fino alla fine. E’ difficile raccontare quella stagione a chi non l’ha vissuta. Penso però che siamo entrati in questo terzo millennio purificato dai fardelli di alcune ideologie, non tutte per la verità. È un dono che noi dobbiamo gestire in maniera migliore. Eppure dimentichiamo in fretta,  dimentichiamo come si sono svolte le nostre vittorie. È questo il dramma dell’umanità: quanto la situazione è di emergenza l’essere umano si mobilita, diventa capace di agire.

Lo dico spesso: è ora che gli uomini di fede prendano parte al processo di costruzione della storia, non si tirino indietro, assumano la responsabilità di volere e costruire un mondo migliore. Io non volevo diventare politico. Se quarant’ anni fa qualcuno mi avesse detto che oggi avrei ricoperto questo ruolo non gli avrei dato retta, non gli avrei creduto. Non avevo le basi per fare tutto questo, avevo solo due cose: una profonda fede in Dio e una convinzione profonda in ciò che stavo facendo, nulla più. Vede quanto si può ottenere? E quante cose si possono fare così, in modo del tutto umano?  Bisogna agire, bisogna volere, il resto è solo questione di tempo. 

Cosa rimane oggi dell’esperienza di Solidarnosc?

Certamente una grande vittoria, politica e ideale. L’esempio di come si può combattere, anche in questo XXI secolo, una battaglia non con la forza ma con la saggezza, argomentando le proprie ragioni. L’esperienza degli anni ’80 ha avuto tre capitoli essenziali. Il primo è stato la costruzione di un monolito capace di fronteggiare il comunismo; questo è stato il momento magico, spettacolare di un risveglio, se vogliamo anche piuttosto teatrale. Quando abbiamo visto che il sistema stava cedendo abbiamo dovuto affrontare il secondo capitolo: non potevamo sostituire quel monopolio voluto da Lenin e da Stalin con un altro tipo di monopolio; tutta la forza che eravamo riusciti a costruire attorno a Solidarnosc dovevamo spenderla in democrazia, in pluralismo.

Quindi siamo stati costretti a dividere il patrimonio: non avevamo lottato per anni per trasformarci a nostra volta in un partito egemone. Abbiamo messo in moto il processo di formazione di vari partiti, e noi sindacalisti ci siamo messi a costruire un nuovo genere di sindacato, che difende degli interessi: è il terzo capitolo. La mia Solidarnosc era un movimento sociale più ampio. Avrebbe dovuto ripiegare le proprie bandiere alla fine del primo capitolo, io l’avevo proposto subito ma allora non mi hanno dato ascolto. Oggi però la solidarietà all’interno della società è ancora necessaria, ci vuole una nuova Solidarnosc in Europa e – io credo – anche a livello globale.

Oggi si parla molto di globalizzazione e si prefigurano scontri tra culture e religioni? Cosa ne pensa?

L’epoca delle divisioni e dei blocchi ha creato molte cose negative, ha fatto del male. Troppo spesso le religioni sono state usate come armi per le battaglie. Guardi l’Europa: non dimentichi il sangue sparso eppure oggi nel nostro continente non vi sono più  frontiere. Se potessi far rivivere mio padre e gli dicessi “Ma lo sai che in Europa non ci sono più le frontiere? Lo sai che sulla frontiera polacco-tedesca non ci sono più  soldati?”, non finirei questa considerazione perché morirebbe prima di crepacuore.

Dunque, tutto è possibile nonostante ciò che alcuni cattivi maestri continuino a sostenere. Io sono fiero di essere cattolico eppure sono convinto che Dio è lo stesso per tutti, al di là del nome con cui lo si chiama. Certo, siamo agli inizi di questa epoca di convivenza. Ci vorrà del tempo ma la strada è segnata. Quando trent’anni fa parlavo di Stati Uniti d’Europa mi prendevano in  giro. Oggi sappiamo che questa è la nostra strada obbligata. Non ne esistono altre.

 

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