La “Pacem in terris”. Ha 60 anni ma non li dimostra
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Proprio 60 anni fa, l’11 aprile del 1963, giovedì Santo, Giovanni XXIII pubblicò la sua ottava enciclica, la Pacem in Terris
Fu l’ultimo documento, quasi una specie di “testamento spirituale”, perché il papa bergamasco – malato gravemente – morì 45 giorni dopo, il 3 giugno.
L’ultima parola del pontificato
La Pacem in terris – “il manifesto del mondo nuovo”, come subito la definì Giorgio La Pira – fu dunque l’ultima parola del suo pontificato. Dopo la sua pubblicazione il vecchio Papa non fece che vivere di quella parola, custodendo il mistero della pace che aveva annunciato, riproponendolo più volte e in diversi modi, e ammirando lo straordinario impatto che esso aveva avuto nel mondo. “Per la Pacem in terris – disse nella penultima udienza generale – anche le pietre, lo si potrebbe affermare, si sono scosse e sollevate”.
E in effetti la ricezione fu straordinaria ed ebbe una risonanza superiore ad ogni più rosea previsione. Se ci fu chi, in Italia e anche dalle nostre parti, la chiamò, per disprezzo, la “Falcem in Terris”, molte furono, in tutto il mondo, le recensioni positive. Il New York Herald Tribune scrisse che “in nessun momento dall’epoca della Riforma, forse anche dall’epoca della separazione delle Chiese di Oriente e di Occidente, un vescovo di Roma si era rivolto ad un uditorio così vasto e così ricettivo”. Mentre il “Washington Post” scrisse che: “non è solo la voce di un vecchio prete né solo quello di un’antica chiesa. E’ la voce della coscienza del mondo”. La stessa Tass, l’agenzia sovietica sempre restia a parlare di argomenti religiosi, ne pubblicò un largo riassunto.
La novità dei contenuti e del metodo
Ma dove stava la novità dell’enciclica? Il testo si presenta come un grande affresco sui problemi dell’umanità a partire da una convinzione: l’impresa di costruire la pace “sulla terra” è un obiettivo che può benissimo essere perseguito. Infatti “esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità”.
Non solo: per la prima volta, nel corso della storia della chiesa, un’enciclica non era rivolta solamente a cardinali, vescovi e popolo di Dio. Essa era indirizzata “a tutti gli uomini di buona volontà”. Come a voler sottolineare che la pace, dono del Risorto per i credenti, è un valore attorno al quale si possono e devono ritrovare gli uomini di tutte le confessioni religiose, perché è un valore umano fondamentale. Il testo inoltre organizza tutta la materia utilizzando la categoria evangelica dei «segni dei tempi» che papa Giovanni aveva già introdotto due anni prima nella Costituzione apostolica Humanae salutis. Supera il metodo deduttivo da sempre utilizzato nelle encicliche sociali.
Fra i «segni dei tempi», vengono ricordati l’ascesa economico – sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, il fatto che tutti i popoli si siano costituiti in comunità politiche indipendenti. C’è un invito a superare il concetto della guerra come «strumento di giustizia» tra i popoli. “Alienum est a ratione”, dice il testo latino. E cioè “è irragionevole e folle” (da “fuori di testa”, insomma) pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia.
Non parla di guerra giusta, ma solo di pace
Per la prima volta è resa ufficiale la proclamazione della immoralità e assurdità della guerra, e quindi obbligati a trovare altre vie per ristabilire diritto e giustizia violati. La chiesa cattolica tenta di lasciarsi alle spalle la dottrina – elaborata dal quinto secolo in poi – della “guerra giusta” per concentrarsi sulle strade della pace. L’enciclica poi precisa che bisogna imparare a distinguere le «false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, da movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione».
Il mondo come orizzonte del bene comune
Infine, l’enciclica, con straordinaria preveggenza, parla che il concetto di bene comune deve essere elaborato con un orizzonte mondiale. «Bene comune universale» viene definito.. Una delle conseguenze di questa evoluzione era l’evidente esigenza che vi fosse un’autorità pubblica a livello internazionale, che potesse disporre dell’effettiva capacità di promuovere tale bene comune universale. Questa autorità, aggiungeva il papa, non avrebbe dovuto essere stabilita attraverso la coercizione, ma solo attraverso il consenso delle nazioni. Si sarebbe dovuto trattare di un organismo avente come «obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona».
Insomma, anche alla luce di quanto è successo negli ultimi mesi, la Pacem in Terris non può essere solo oggetto di memoria. Ma, piuttosto, una stazione dalla quale procedere, alla quale dobbiamo ancora arrivare. Essa non sta nel passato, sta nel futuro dell’umanità, nel futuro della chiesa. Perché è in gioco il futuro dell’uomo.