La guerra in Ucraina. Sono contro la guerra
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Dove sono finiti i nostri pacifisti?
Si chiedeva, nei giorni scorsi, Domenico Quirico su La Stampa di Torino.
Ma dove sono finiti i pacifisti, i fustigatori, sacrosanti, delle fandonie di politici e stati maggiori (e non si può dire che nel caso Ucraina siano mancate, anzi), le grida e i furori e le elevazioni giustamente evangeliche di quelli che proclamavano all’infinito che la pace è bene e la guerra è male, così il problema è risolto ancor prima di porlo? Che il puro impiego della forza non dà né vincitori né vinti. Spariti, liquefatti, scomparsi, impalpabili questi Ingenui, meravigliosi e indispensabili.
Un’analisi impietosa che mette sotto i riflettori il silenzio assordante di politici e di artisti, di intellettuali e influencer di fronte ai violenti venti di guerra che spirano ad Est. Un giudizio sferzante che tocca anche noi cattolici. Scrive Quirico:
E le veglie di preghiera per la pace, le sere delle parrocchie di paese e delle cattedrali illuminate dalle candele, San Francesco La Pira la pacem in terris eccetera eccetera? Qualche parola del Papa, una iniziativa di Sant’Egidio: bene ma pochino, una volta si sarebbe detto il minimo sindacale. Ci vuol ben altro per chi ha proclamato santamente che la guerra è fuori dalla morale
Mentre leggevo l’articolo di Quirico ho ripensato ad un’intervista che anni fa feci a Gino Strada proprio sul silenzio di tanti di fronte all’orrore della guerra. Ve la ripropongo.
Incontrarlo non è facile. Un po’ perché è sempre in giro per il mondo, un po’ perché, quando è in Italia, passa da una città all’altra ad incontrare i gruppi di sostegno di Emergency. Stiamo parlando di Gino Strada, il chirurgo di guerra forse più famoso al mondo. Certo quella che fa più discutere. I suoi interventi contro la guerra, le sue prese di posizione contro l’aumento delle spese militari, hanno fatto discutere il mondo politico.
Gino è nato a Milano dove si è laureato in medicina, ramo chirurgia d’urgenza. E’ diventato chirurgo di guerra per scelta, dapprima lavorando con la Croce Rossa Internazionale e poi creando Emergency, un’associazione a favore delle vittime delle guerre civili.
L’ha fonda, insieme a sua moglie Teresa, una donna straordinaria, morta tre anni fa, con obiettivo di fornire assistenza alle vittime civili dei conflitti, menomate da ordigni bellici come le mine antiuomo ma anche dalla malnutrizione e da mancanza di cure mediche. E anche per addestrare il personale locale a far fronte alle necessità mediche, chirurgiche e riabilitative più urgenti e diffondere una cultura di pace.
Dalla sua nascita Emergency ha dato vita ad ospedali e pronto soccorso in Ruanda, Sudan, Repubblica Centroafricana, Sierra Leone, Kurdistan iracheno, Cambogia, Afghanistan e da qualche tempo poliambulatori anche in Italia.
Nel tuo curriculum di medico specializzando c’è un’esperienza di allievo del grande cardiochirurgo Lucio Parenzan. Lei era avviato dunque ad un’importante carriera come chirurgo di ospedale italiano. Perché, a un certo punto, ha deciso invece di fare il chirurgo di guerra?
Mi piacerebbe avere una risposta. Forse la risposta più vera, tra le tante possibili, è che ero curioso. Curioso di vedere cosa sarebbe stato il mio mestiere di chirurgo, dall’altra parte del mondo; dove i chirurghi non sono lì a cercare di accaparrarsi il malato, dove ci sono tanti malati che non trovano nessun chirurgo. Desideravo fare quell’esperienza.
Mi son dato da fare per riuscire a concretizzarla e, alla fine, son riuscito a partire. Sono finito in un ospedale della Croce Rossa Internazionale, al confine tra Pakistan e Afghanistan, e in quell’ospedale si curavano esclusivamente feriti di guerra, vittime del conflitto afghano. E’ stato il mio incontro con la guerra. Lì ho deciso che non potevo girarmi dall’altra parte. Insomma, occorreva rimboccarsi le maniche e fare qualcosa.
Se dovessi descrivere la guerra a chi non l’ha vissuta, quali immagini useresti?
Comincerei col dire che la guerra fa paura, crea angoscia. Non c’è molto tempo, o spazio per la testa, per altro, per considerazioni etiche su quanto crudele e disumana. Solo paura e angoscia dominano lo scenario. Ne ho viste di brutte e da vicino e non vorrei che mia figlia, o mio nipote, vedessero le stesse cose.
Noi tendiamo a buttare le guerre fuori dai confini; un’operazione che, però, ha le gambe corte. Perché poi ti rientrano dalla finestra, di questo sono certo. Se pensi ad un bambino sotto i bombardamenti, non importa quale sia la sua religione, cultura o etnia, e provi a sovrapporre il suo viso a quello di tuo figlio, e hai il coraggio di pensare, capisci cos’è la guerra.
Un giorno hai affermato: “Io non sono un pacifista, io sono contro la guerra”. Che cosa significa?
Anni fa, in Italia ci fu una delle più grandi manifestazione per la pace mai vista al mondo; tre milioni di persone sfilarono a Roma. Fu un immenso corteo contro la guerra in Iraq. Non si erano mai viste così tante persone, a livello mondiale, in piazza per la pace, contro la guerra. Grandi titoli di giornali. Non molto dopo, ci furono le elezioni, e cambiò il governo. Una bella fetta di coloro che erano per la pace, con il governo precedente, dichiarò di continuare a essere per la pace, con il nuovo governo, però votarono la guerra.
Ho capito allora che per molti la parola “pacifismo” non vuol dire essere contro la guerra. Di solito vuol dire: “Sono contro la guerra che fanno i miei avversari. In quella che fanno i miei amici, tutto sommato, riesco a starci abbastanza bene dentro”. Io non sono pacifista. Ho visto tanto di leader politici pacifisti, con tanto di sciarpa arcobaleno, votare per l’aggressione e l’occupazione militare dell’Afghanistan, per continuarla anno dopo anno. Ecco perché non mi dico pacifista, ma contro la guerra. E’ una cosa diversa.
Non credi che sia un po’ riduttivo pensare che bastano delle decisioni politiche per eliminare la guerra, come se potesse essere eliminato il male?
Non lo so. Io sono molto più pratico. Come si fa a evitare una guerra? A me la risposta pare molto semplice: basta non farla. E la si è evitata. E se il comportamento si ripropone, se ne sono evitate due. Pensare di arrivare a una situazione in cui la guerra scompaia dalla storia umana, o vada a scemare semplicemente perché si firmano nuove convenzioni e nuovi trattati, mi pare un’illusione. Quel fenomeno succederà, se si impongono pratiche diverse, scelte diverse. E le scelte sono lì, ogni volta, da fare.
Dal 2001 il Governo italiano può scegliere, ogni anno, se continuare a partecipare, con almeno un miliardo di euro all’anno, all’occupazione militare dell’Afghanistan, oppure no. Ogni anno, sceglie di sì. Secondo me ha perso un’occasione per una pratica diversa. Ha perso un’occasione per piantare qualche seme che non sia quello della violenza. Che il nutrimento della guerra – per qualsiasi guerra – non funzioni credo sia sotto l’occhio di tutti quelli che vogliono ragionare. Le guerre non hanno portato da nessuna parte. Lasciano intatti molti dei problemi, ne creano di nuovi, ne acuiscono altri; soprattutto si perde di umanità.
Cosa abbiamo perso con quei 25 milioni di morti per guerra in quello che chiamiamo “dopoguerra”? Quanti Einstein c’erano in quei 25 milioni? Quanti Leonardo? Quanti maestri, quanti medici, quanti intellettuali, quanta ricchezza umana abbiamo perso? E perché? So che non è facile la strada per cambiare. Però bisogna pure cominciare a percorrerla. Ce l’hanno detto due dei più grandi geni dell’umanità, Albert Einstein e Bertrand Russell, nel loro manifesto del 1955. Hanno spiegato le difficoltà ad arrivare all’abolizione della guerra ma hanno posto quello come l’obiettivo indispensabile, dicendo addirittura: “O l’umanità sarà capace di rinunciare alla guerra, o la guerra farà finire l’umanità”.