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La guerra in Medio Oriente e il rischio del pregiudizio

La guerra in Medio Oriente e il rischio del pregiudizio

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

La guerra “inevitabile” e le inevitabili divisioni per l’una o l’altra parte. Qualche cenno per capire il passato e qualche parola per sperare in un futuro diverso


Dopo le notizie e le immagini degli ultimi dieci giorni non è facile scrivere del conflitto israelo-palestinese. La brutalità di quanto è avvenuto – che non può avere giustificazione alcuna – rientra in una forma inedita e drammatica nella vicenda di una storia che ciclicamente, con una sinistra cadenza, entra prepotentemente nelle nostre case.

Difficile parlare di una situazione molto complessa

Non è facile parlare del conflitto perché ogni qualvolta lo si affronta, il rischio del pregiudizio – ideologico, politico e culturale – è in agguato. Con uguale facilità, i partigiani dell’una e dell’altra parte, azzerano ogni complessità, riducono a frammenti grumi di pensiero e di storia che andrebbero sezionati con cura, analizzati con rigore.

Quasi sempre, invece, sono scelte di campo che non lasciano spazio a dubbi, ostentano certezze, non riconoscono le ragioni dell’altro. Perché questo è il dramma che si trascina sin dal 1948, anno della fondazione dello Stato d’Israele: il dramma di due popoli che hanno entrambi forti ragioni da esibire.

Gli ebrei e i duemila anni di esilio forzato, di emarginazione e di ghetti

Gli ebrei – quando nasce lo Stato d’Israele – ritrovano una terra dopo duemila anni di esilio forzato che ha significato diffidenza, oltraggi, emarginazione, segni distintivi, chiusure in ghetti, espulsioni, fino allo sterminio sistematico operato dall’ideologia razziale e biologica nazionalsocialista. Un lungo martirologio, sfociato nella Shoah, che ha trovato linfa e alimento anche da un sentimento antigiudaico coltivato nel corso dei secoli all’interno delle comunità cristiane. Da “perfidi giudei”, usato, fino al 1958, durante la preghiera universale della liturgia del Venerdì Santo a “fratelli maggiori”, il saluto rivolto da Giovanni Paolo II il giorno in cui viene ricevuto dal Rabbino Toaff alla sinagoga di Roma: in questa lunga parabola, ci sta tutto il cammino di conversione della Chiesa e dei cristiani riguardo gli ebrei.

I Palestinesi diventati stranieri nella casa abitata da sempre

Lo Stato d’Israele nasce da una risoluzione dell’ONU ma su una terra che da secoli vede la presenza di arabi palestinesi. I quali, a partire dal 1948, sono stranieri nella casa che hanno sempre abitato. Centinaia di villaggi distrutti e cancellati dalle carte geografiche, migliaia di profughi illusi o costretti a lasciare case e terreni, un territorio segnato progressivamente – soprattutto dopo la guerra dei sei giorni, del giugno del 1967 – dalla presenza di check point e da numerosi insediamenti in zone occupate e mai più restituite.

Come con lucidità ebbe a dire Shimon Peres, braccio destro del fondatore dello Stato ebraico David Ben Gurion, poi artefice del deterrente nucleare, quindi ministro degli Esteri, premio Nobel per la pace, primo ministro e infine Presidente della Repubblica: “i palestinesi sono il peccato originale di Israele. Perché nel 1896 quando Theodore Herzl, l’ideatore del sionismo, coniò lo slogan ‘un popolo senza terra vs una terra senza popolo’, su quella terra un popolo c’era già, gli arabi. E per mondarci dal peccato, noi ebrei abbiamo soltanto uno strada: dare loro uno Stato”.

Nello scacchiere geopolitico, i palestinesi non contano: abbandonati al loro destino dagli stessi “fratelli” arabi

Nello scacchiere geopolitico, i palestinesi non contano: abbandonati al loro destino dai “fratelli” arabi che pure strumentalmente li hanno esibiti troppe volte come merce di scambio; in diaspora e divisi, succubi di organizzazioni politiche poco democratiche e corrotte (Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, non indice elezioni libere in Cisgiordania dal 2009), attratti spesso per disperazione da un uso identitario della religione (Hamas), rinchiusi in un’impotenza che si trasforma in rabbia e, lo abbiamo visto, in violenza disumana da parte di qualcuno.

Eppure basta recarsi in qualche città della Cisgiordania, dove – rispetto all’inferno di Gaza – la situazione è più “normale”, per respirare l’aria di paura e di disperazione che vi regna. La gente palestinese resiste da decenni all’occupazione, alla segregazione, all’esproprio di terre, alla mancanza di libertà e dei diritti più elementari.

Il muro – garanzia di sicurezza per Israele, vergogna e elemento di separazione per i palestinesi – la stringe sempre più in una morsa. La terra viene confiscata, rubata dagli insediamenti sempre più numerosi, dalla ragnatela di strade riservate agli israeliani, dai checkpoint che controllano anche i confini interni zone A, B, C (zone palestinesi, a controllo misto, territori ad esclusivo controllo israeliano).

Non esiste la libertà di muoversi da una zona all’altra; serve un permesso rilasciato dai militari, ma anche con il permesso si può essere fermati ad uno degli infiniti checkpoint; e così si perde il lavoro, non si può andare a scuola, non si può raggiungere l’ospedale. Senza un’unità territoriale non rimane nemmeno la speranza di costituire in un futuro uno stato palestinese. 

Gaza in stato di occupazione permanente

E che dire della striscia di Gaza? Una piccola porzione di terra, estesa 365 chilometri quadrati (giusto per capirci: la Lombardia è estesa 23.844 kmq, ovvero 65 volte più grande) ed è abitata da 2 milioni e duecentomila persone, con una densità di 13.121 abitanti per kmq. Anche qui un dato può essere utile: Singapore, lo Stato con maggiore densità di popolazione al mondo, ha 7301 abitati per kmq e Honk Kong 6396 abitanti.

Non si può pretendere sicurezza seminando disperazione, occupando territori altrui, umiliando i palestinesi

Israele di Gaza controlla lo spazio aereo, le acque territoriali e gli accessi attraverso i varchi nella recinzione (bucata in più punti dai terroristi di Hamas sabato 7 ottobre) che dal 2001 circonda l’enclave. 10 litri di acqua a testa, per bere, lavarsi e cucinare, elettricità disponibile mezza giornata. Oltre l’ottanta per cento della popolazione (che per tre quarti ha meno di 25 anni) vive in condizioni di povertà e la disoccupazione sfiora il 50%.n

La violenza è da condannare da una parte e dall’altra. Ma certo non si può pretendere sicurezza seminando disperazione, occupando territori altrui, umiliando i palestinesi e costringendoli a vivere in condizioni di occupazione permanente. E tutto questo nell’assoluta indifferenza della comunità internazionale.

Non serve sposare una parte contro l’altra

Eppure ogni volta mi convinco che non servono le manifestazioni di parte. Agli israeliani ed ai palestinesi non servono degli amici che siano tanto più amici degli uni, quanto più nemici degli altri. L’unilateralismo non aiuta a risolvere alcunché.

A volte ho la netta impressione che l’occidente non sia ancora pronto ad affrontare seriamente la questione mediorientale. E come potrebbe, se manca un’informazione corretta ed approfondita, se tutto quanto accade subisce la deformazione delle ideologie e delle parti. Sono convinto, piuttosto, che si debba lavorare per, non contro. Per la pace e la giustizia, la libertà e i diritti di tutti per tutti, non contro una o l’altra parte.

Non si tratta di essere indifferenti alle differenze, di non avere un’idea precisa in ordine al conflitto in corso; si tratta di mantenere una posizione di equiprossimità, una solidarietà critica che possa aiutare gli uni e gli altri a mantenere aperto il dialogo. Qui, come là. Solo un atteggiamento di mediazione può aiutare la comunicazione. Ed allora le parole vanno ancora più soppesate e pensate. Per non contribuire, qui e là, al conflitto, per non alimentare lo scontro.

Si tratta di mantenere una posizione di equiprossimità, una solidarietà critica che possa aiutare gli uni e gli altri a mantenere aperto il dialogo

Lo sappiamo: la guerra, l’aggressione armata, il terrorismo non risolvono nulla, anzi potenziano le rabbie e gli estremismi, da una parte e dall’altra. Va finalmente affrontato con decisione e pacatezza il problema storico della convivenza sulla stessa terra di due popoli. Vanno riconosciute le sofferenze di entrambi i popoli e le ingiustizie, passate e presenti. Vanno riconosciuti i diritti fondamentali di ogni persona che abita Israele e la Palestina (che sta scomparendo a poco a poco dalle cartine geografiche).

Poco noi possiamo fare. Ma almeno questo lo dobbiamo fare. Informarci, sapere cosa accade veramente, ribadire il diritto di tutti ad una vita dignitosa ed in pace. Mantenere rapporti di amicizia con entrambe le parti, ma allo stesso tempo denunciare con forza le ingiustizie, la sopraffazione, le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale.

Ma restare terzi. Nella nostra impotenza, questo possiamo fare.

 

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