La Chiesa “dimenticata”. Senza Chiesa e senza Dio/1
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Intervista con Brunetto Salvarani, teologo. Prima parte
La crisi profonda del cristianesimo.
Il “mondo cattolico” è finito
Brunetto Salvarani è un teologo curioso e capace di sguardi plurali, da sempre attento ai cambiamenti in atto nella Chiesa e nel mondo. Due settimane fa, per i tipi Laterza, ha pubblicato un testo dal titolo: “Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano”. Prendendo atto di una crisi profonda che attraversa le chiese cristiane europee, Salvarani si interroga se questa trasformazione epocale riguarderà solo il mondo religioso o ci saranno conseguenze rilevanti per la società occidentale nel suo complesso. Non solo rilancia la necessità che la visione cristiana, se vuole essere ancora pertinente per l’uomo contemporaneo, va ripensata da capo ma con acutezza si chiede cosa rischiamo tutti di perdere in una cultura in cui il cristianesimo che abbiamo ereditato dal passato non funziona più. Di questo e di molto altro ho ragionato con Brunetto.
Cosa ti ha mosso a scrivere “Senza Chiesa e senza Dio”?
Una convinzione precisa, che provo da tempo, e che sono certo sia condivisa da molti cristiani: la Chiesa è in crisi. Anzi, le chiese si trovano come sospese tra affanno e depressione, soprattutto nei paesi europei, e la loro appare a tutti gli effetti una crisi epocale. Al cuore delle comunità cristiane affiora un vistoso disagio, che viene da lontano, ha molteplici motivazioni e si manifesta in modi diversi. C’è chi preferisce, al termine crisi, quello di declino, riferendosi – nel tentativo di limitare i danni – all’esaurimento di una determinata forma storica di cristianesimo coniugata in chiave di religione, ma la sostanza non cambia.
In realtà, probabilmente, la si potrebbe dire una non-notizia, ormai, di fronte alla quale parte dell’opinione pubblica nazionale può trovare di che rallegrarsi, reagendo semmai, a mezza voce, con un “finalmente!” che riemerge da antichi e mai del tutto sopiti furori anticlericali. Peraltro, la novità di questi due o tre ultimi decenni – almeno in ciò che chiamiamo Occidente – è che la reazione media alle conclamate difficoltà che il cristianesimo sta trovando, nel suo sforzo di trasmettersi alle nuove generazioni in territori di antica tradizione e di presentarsi come parola credibile e autorevole nello spazio pubblico, corrisponde per lo più a un’alzata di spalle, a un disinteresse trasparente ed endemico.
Il fatto che – ad esempio – le chiese annaspino quale più quale meno in un vistoso dissesto etico, fra scandali sessuali e disastri finanziari, che i presbiteri e le religiose siano sempre più rari e affaticati, e che parole chiave nell’universo di senso cristiano come salvezza o redenzione non dicano più nulla a una quota crescente della popolazione, produce indifferenza e non preoccupa nessuno, o quasi. Forse, gli addetti ai lavori, alla fine pochi intimi. Qui sta il punto.
Mi sono chiesto, dunque: possiamo accettare con calma olimpica che la Bibbia sia ridotta a un libro assente nella cultura media di un cittadino italiano, e che una simile assenza ci impedisca di capire chi siamo stati, chi siamo, da dove veniamo e quali racconti hanno plasmato la sensibilità e le speranze di chi ci ha preceduto? Possiamo dare per scontata non solo e non tanto la fine della cristianità, appunto, ma anche ciò che la diffusione del pensare cristiano (certo, ibridato con molte altre radici e venature) ci ha offerto, spesso pagato a caro prezzo (l’apertura al futuro, l’emergere dell’umanesimo, il primato dell’amore per il prossimo, valori cruciali nelle relazioni interpersonali come il perdono e la misericordia)? E via dicendo…
Hervieu-Leger parla di esculturazione del cristianesimo. Ti ritrovi in questo cambiamento radicale che investe in modo prepotente l’Occidente cristiano?
Sì, decisamente. Del resto, anche Christoph Theobald, teologo gesuita molto stimato per la sua lettura del Vaticano II, ha adottato la stessa terminologia: es-culturazione del cristianesimo dall’Europa. Seguo da anni il lavoro, prezioso, di Danièle Hervieu-Léger, e trovo che le sue siano di solito analisi realiste e ben documentate. In effetti, la sensazione generale è che quello che era un paesaggio religioso conosciuto e abitato per secoli abbia negli ultimi decenni subìto dei mutamenti così sensibili, al punto da divenire irriconoscibile.
Il punto di partenza di qualsiasi ipotesi sul futuro delle chiese è così, inevitabilmente, la constatazione acclarata della fine di un mondo. Del mondo cattolico, perlomeno, nonché della cristianità che ebbe origine nel quarto secolo, in conseguenza delle scelte politiche dell’imperatore Costantino (e poi Teodosio) e dei grandi concili dogmatici, da Nicea (325) a Costantinopoli (381). Certo, non esiste una data precisa per un simile evento (che infatti non è un evento, bensì un processo che ha registrato più tappe lungo i secoli, ma soprattutto lo sfrangiamento progressivo di un universo di senso).
Sta di fatto che oggi quel microcosmo compatto e all’apparenza inscalfibile, capace di imporre in un territorio assai vasto, per secoli, il proprio sguardo sicuro sulla realtà sociale e sul dopo-vita, nonché di tener testa fieramente ai ripetuti attacchi dei suoi nemici di turno – atei, laicisti, materialisti, e via dicendo – ma anche di superare senza fiatare ogni refolo di contestazione interna – cosiddetti eretici, modernisti, reazionari, cristiani del dissenso, anticonciliari e via dicendo – non esiste più. Si è dissolto nel vento, o sta ormai per dissolversi. A nulla valgono le (sempre più flebili, a mio parere) nostalgie dei sopravvissuti, i rimpianti amari del bel tempo che fu, i richiami a una mitica età aurea, a “quando le cattedrali erano bianche” e il popolo delle città europee si ingegnava con ogni mezzo a coinvolgere architetti, artisti e maestranze varie per costruire chiese ed edicole, santuari, conventi e monasteri che segnassero il territorio.
Uno scenario, in ogni caso, consegnato alla storia. Si badi, non si tratta – per chi voglia darsi da fare per ricostruire dalle macerie – di ripartire da zero, ma di rendersi conto, in primo luogo, che non c’è solo da rimboccarsi le maniche, ma anche e soprattutto il pensiero. Per capire cosa sia successo, nonché come e perché è successo.