La Chiesa del futuro. Essere aperti senza rinunciare a essere cristiani
[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Come sarà la Chiesa fra dieci, venti, trent’anni? Il vescovo di Torino si pone la domanda.
La tesi di Vito Mancuso, in linea con il sentire dominante di oggi.
Ma ogni autentica apertura non nega mai la propria identità.
La Chiesa che rischia di non essere più una risorsa per gli uomini di oggi
Nelle scorse settimane sulle pagine del quotidiano torinese La Stampa si è sviluppato un dibattito che merita di essere ripreso. Ad avviarlo (forse suo malgrado) è stato un testo (peraltro non integrale) dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, già pubblicato sul numero di giugno della rivista “Vita e Pensiero” dell’Università Cattolica. La preoccupazione che muoveva l’articolo aveva come focus il destino della fede cristiana e della Chiesa di fronte alle sfide del tempo presente. L’incipit dell’articolo non lasciava dubbi: “Come sarà la Chiesa fra dieci, venti, trent’anni? Come dobbiamo ragionare di fronte ai numeri della partecipazione religiosa in forte calo o alla notizia di intere parrocchie che vengono cancellate?”
La disanima è lucida e sincera. La Chiesa – minoritaria e in forte invecchiamento – corre il rischio di essere un’organizzazione sociale che si china sui poveri incapace di profezia che la renda protagonista, insieme ad altri, di progettare una società più giusta, più equa, senza persone strutturalmente condannate a marginalità. E, soprattutto, corre il rischio di non essere più una risorsa spirituale per il nostro tempo.
Viviamo un cristianesimo che non offre veri cammini di spiritualità. I giovani chiedono proposte alte.” Con un pericolo incombente: “credo che molti cristiani non sentano più l’urgenza o la bellezza di annunciare e testimoniare Gesù Cristo agli altri. Credo che in maniera sottile molti cristiani facciano proprio il nichilismo contemporaneo o, se volete, quella forma di nichilismo che è l’assoluto relax, il relativismo. Una cosa vale l’altra. Ma io non sto nella Chiesa e non sono cristiano se una cosa vale l’altra. Io sono cristiano perché credo fermissimamente ciò che dice Pietro nel libro degli Atti: che non c’è nessun altro nome in cui c’è salvezza, se non Gesù Cristo. Chiedo perdono, ma per meno di questo io non riuscirei a essere cristiano.”
Non si salvano solo i cristiani. Parola di Vito Mancuso
Vito Mancuso, uno scomodo e intelligente pensante del nostro tempo, in un successivo articolo, riprende e contesta questa ultima affermazione di Repole:
In realtà, dietro la ripetizione della prospettiva tradizionale c’è la consapevolezza di un problema diventato rovente ai nostri giorni e che si può esprimere così: davvero non esiste altro nome se non quello di Gesù per la salvezza degli esseri umani? Davvero si salvano (qualunque cosa voglia dire “salvarsi”) solo i cristiani? Davvero tutti coloro che non si appellano al nome di Gesù, e che sono la maggioranza dell’umanità nel passato nel presente e nel futuro, sono esclusi dalla salvezza? Davvero Dio rifiuta di salvare chi lo prega rivolgendosi a lui nel nome di altri? O chi non lo prega ma pratica la vita spirituale, come per esempio i buddhisti e i jainisti? O addirittura chi lo nega ma serve il bene con un’irreprensibile condotta morale lottando contro le ingiustizie e le disuguaglianze?”
Mancuso fa un’operazione ardita e spregiudicata: sposta il tema centrale di Repole – che ne sarà della fede cristiana nel futuro prossimo? – a quello dell’esclusività della salvezza attraverso Gesù Cristo.
A un mondo che cerca unità, dialogo, pluralismo, viene di nuovo offerto quell’esclusivismo teologico che lungo i secoli ha prodotto divisioni, persecuzioni, e non di rado violenze e guerre di religione. In nessun altro c’è salvezza? Davvero? Quindi Gandhi, Martin Buber, il Dalai Lama sono esclusi dalla salvezza? Sant’Agostino e i concili ecumenici pensavano così, ma la coscienza sente che si tratta di un’ingiustizia, peraltro già avvertita da Origene nel III secolo e da molti altri mistici e teologi dopo di lui. Finora gli uomini di Chiesa hanno sempre scelto il dogma e non la coscienza, e la situazione a cui la loro scelta ha condotto è quella descritta da Repole. Vogliono continuare così? Facciano: il problema, sia chiaro, non è del mondo, che va per la sua strada, ma del cristianesimo, le cui chiese rimangono vuote.”
Le chiese vuote sono colpa della Chiesa. Ancora parola di Vito Mancuso
Mancuso cioè sostiene che le chiese vuote siano il frutto di un’impostazione teologica (e di una tradizione catechistica e pastorale di lunghissima data) che – assolutizzando la vicenda cristiana -impedisce di cogliere il senso profondo dell’esperienza spirituale di cui ciascun uomo è portatore. Evidenzia con molta chiarezza (e chi sta nel recinto ecclesiale questo dovrebbe ricordarselo più spesso) che
la Chiesa non sa più intercettare il motivo principale che spinge da sempre gli esseri umani a credere in Dio e ad avere una religione. Oggi in Occidente sono sempre meno coloro che, volendo seriamente coltivare nella propria esistenza la dimensione spirituale, si rivolgono alla Chiesa cattolica, e in genere alle Chiese cristiane. Questa frattura tra proposta religiosa cristiana e ricerca spirituale contemporanea è il dato, il punto, direi il sigillo, che contrassegna la situazione inedita di questi giorni, tanto difficili quanto irrequieti e sorprendenti. C’è una crescente domanda di senso e di spiritualità, ma l’offerta cristiana in Occidente (non così in altre parti del mondo) è sempre più irrilevante e sempre meno capace di parlare all’inquietudine dei cuori.
Il filosofo, autore di volumi molto letti e dal 2022 editorialista de La Stampa, dopo aver fatto notare che tanti testi greci, romani, hindu, buddhisti, musulmani, taoisti e di altre religioni ancora, così come testi filosofici e letterari della ricerca spirituale laica, ricordano indicazioni etiche evangeliche riguardo la cura del bene e della giustizia, fa emergere in modo netto la sua indicazione:
È questa la spiritualità nuova e al contempo antichissima, archetipale e primitiva, universale e in quanto tale unitaria, che sta emergendo nel mondo, rispetto a cui il cristianesimo, come tutte le altre religioni, si dovrebbe porre umilmente al servizio abbandonando ogni pretesa di primato e di esclusività.”
Ma la fede in Gesù di Nazaret non può essere solo una tra le tante
L’impressione – e su questa sarebbe bello aprire un confronto – è che Mancuso sia davvero figlio del nostro tempo. Togliendo ogni valore alla “differenza cristiana” (che, in concreto è la vicenda di Gesù di Nazareth morto e risorto sempre eccedente rispetto alla storia della Chiesa e delle Chiese lungo i secoli) egli dispone il cristianesimo sullo scaffale indistinto delle fedi. Con poco rispetto sia del cristianesimo che delle altre fedi. Inoltre, porta ad un assioma poco sostenibile: per Mancuso indicare Gesù di Nazareth come fonte di salvezza vuol dire escludere le altre prospettive religiose (perché?). Se, come credo, la salvezza per il cristianesimo è sempre e solo salvezza incarnata, essa è strutturalmente dialogica. Per questo
è importante che quel dialogo che ognuno di noi aveva con lo specchio della propria confessione si sia allargato e si faccia tra fratelli, e che non ci sia la paura di dialogare fuori dallo specchio. E ancor meno la smania di convincersi l’un l’altro, di convertire l’altro. Si dialoga, si dialoga, ognuno racconta la propria esperienza, che è un’esperienza di Dio. E Dio si manifesta in tutte le culture, in tutte, alla maniera di quella cultura, si manifesta nei popoli che hanno percorso un cammino della storia in modo diverso, popoli che hanno camminato in un altro modo, ma è lo stesso Dio. E Lui che è il Padre di tutti ci porta a dialogare. Nella nostra vita c’è sempre un percorso che va dal dialogo con lo specchio al dialogo con la realtà, al dialogo con i nostri fratelli; con la realtà vivente che sono i nostri fratelli. È la mano tesa. (Papa Francesco ai partecipanti al Congresso promosso da l’Instituto de Dìalogo Interreligioso Argentina – 5 maggio 2023).
Nei prossimi giorni faremo memoria di Raimon Panikkar, filosofo e teologo catalano morto nel 2010. In un testo straordinario che sarebbe utile rileggere spesso (R. Panikkar, Dialogo interculturale e interreligioso. Culture e religioni in dialogo, in R. Panikkar – M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2013, vol. VI, tomo 2), Panikkar – che di sé diceva: “Sono partito come cristiano, mi sono scoperto indù e ritorno come buddhista, senza aver mai cessato d´esser cristiano” – scrive che se da una parte i dialoganti sono invitati alla kenōsis, cioè a una revisione radicale dei propri riferimenti religiosi, poiché «per capire l’altro, si deve credere a quello che l’altro dice», dall’altra
essi non possono accantonare, o peggio annullare, le proprie verità dottrinali, sospendendo il giudizio sulla loro validità. È necessario invece che il dialogante si dia al dialogo con tutto sé stesso. Si tratta di un dialogo che non si esprime né in forma apologetica, nel tentativo di convincere l’altro delle proprie posizioni, e né in modo dialettico, con l’intento di trovare una soluzione sintetica tra le questioni affrontate. La sua caratteristica, invece, è quella di rimane inconcluso. Esso si manifesta semplicemente come una tensione tra interlocutori. Una tensione che unisce senza annullare le differenze e che divide senza perdere di vista l’unicità. È autentico pluralismo.”
Insomma, non c’è identità senza differenza e differenza senza identità. Così si è rispettosi veramente dell’altro che si ha di fronte.