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Il Vangelo secondo Erri De Luca

Il Vangelo secondo Erri De Luca

[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Erri De Luca è certamente uno degli autori italiani più significativi e difficili da inquadrare: narratore, saggista, poeta, traduttore, autore di testi teatrali e giornalista. Una produzione articolata da parte di un uomo controverso che non si è mai sottratto alle sfide del tempo levandosi spesso come voce, spesso solitaria, di chi fatica a farsi udire nel sonnolento teatro della storia umana. Il suo primo romanzo – “Non ora, non qui” – è stato pubblicato nel 1989 e i suoi libri sono stati tradotti in oltre trenta lingue. Si definisce “autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddis e ebraico antico”. E proprio la Bibbia rappresenta per “il non credente e non ateo” De Luca, il testo fondatore che ha innervato tutta la sua prolifica e suggestiva ricerca letteraria. Ad analizzare il valore della Bibbia nell’opera di De Luca è Luciano Zappella con un libro, che ho trovato molto intrigante e di qualità, da poco pubblicato dall’editrice Claudiana (“Il Vangelo secondo Erri De Luca”, 2021, pp.216, euro 14,50). Zappella, esponente della Comunità Evangelica di Bergamo, ha tutti i numeri per cimentarsi nel lavoro: presidente del Centro Culturale protestante di Bergamo e di Effetto Bibbia è da sempre molto attento al rapporto tra Bibbia e letteratura.

Quali ragioni ti hanno a portato a scegliere di approfondire il profilo e l’opera di Erri De Luca in rapporto alla Bibbia?

Come altre e altri, anche io mi sono “innamorato” di Erri De Luca all’inizio degli anni Novanta, in occasione dell’uscita di Una nuvola come tappeto, il testo che lo ha imposto al grande pubblico, e delle prime traduzioni bibliche (EsodoGiona e Qohelet). All’epoca De Luca era un autore di “tendenza”, in un periodo in cui cominciava a diffondersi anche in ambito laico un forte interesse per l’ebraismo, la lingua ebraica e la Bibbia. Ovviamente, ha giocato molto anche la sua militanza politica e il suo impegno umanitario. Poi, l’ho seguito più sporadicamente, finché due anni fa la richiesta della Claudiana di scrivere un libro su di lui mi ha costretto, si fa per dire, a leggere o rileggere buona parte dei suoi testi.

Una delle apparenti contraddizioni di Erri De Luca è il suo voler rivendicare di essere allo stesso tempo non credente e non ateo. Aiutaci a capire meglio.

È vero. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Io preferisco parlare di paradosso, che, tra l’altro, è anche una categoria biblica, anche se ovviamente il termine non compare nella Bibbia. Il paradosso è racchiuso nella sua autodefinizione di “non credente non ateo”. De Luca ha ripetuto spesso che il fatto di sentirsi non credente non gli impedisce di credere nella fede altrui, cioè di prenderla sul serio, e di credere nel libro – la Bibbia – che racconta una storia di fede pienamente calata nella storia. Vorrei citare una frase tratta da Ora prima che riassume benissimo la sua posizione: «Credente non è chi ha creduto una volta per tutte, ma chi, in obbedienza al participio presente del verbo, rinnova il suo credo continuamente. Ammette il dubbio, sperimenta il bilico e l’equilibrio con la negazione lungo il suo tempo». Mi sembra una considerazione molto bella perché molto vera. E succede spesso che siano proprio i non credenti o i cosiddetti laici a parlare della fede in modo sorprendentemente efficace.

Tu scrivi che De Luca assume una posizione schiettamente laica e dunque propriamente biblica…

Anche questa sembra una contraddizione. Sarebbe effettivamente così se la Bibbia fosse un libro edificante, un libro per anime pie o peggio ancora una specie di manuale moralistico. Ma non è così. Pensa a una figura come quella di Davide e alle sue tantissime contraddizioni. Per non parlare di personaggi come Tamar, Giacobbe, Giona, l’apostolo Pietro, e via dicendo. La Bibbia non è fatta per persone che hanno troppe certezze. E infatti diversi personaggi biblici sperimentano continuamente, come succede a molti ancora oggi, il dubbio e l’abbandono, il credere e il non credere. È interessante vedere come il non credente De Luca colga bene questo aspetto quando scrive che la Bibbia è «un libro sacro, un’avventura per anime in fiamme e in travaglio, non per i quieti».

Ci puoi riassumere in che modo Erri De Luca approccia il testo biblico? Come si accosta? Perché per lui non è solo semplicemente – come per tanti – un motivo ispiratore?

Rispondo in estrema sintesi. Anzitutto, è chiaro che la Bibbia è per De Luca, come per altri scrittori, il testo fondatore di una cultura, di una letteratura e di una identità. Ma al contrario di altri scrittori, la presenza della Bibbia in lui è, se posso dire, totalizzante. Lo è per il fatto che De Luca si è accostato alla Bibbia non solo da lettore, ma anche da traduttore, da commentatore e da ri-scrittore. Non rivendica particolari specializzazioni, non adotta un approccio di analisi storica, filologica e traduttologica, ma invita il lettore ad andare alla ricerca di un significato. Non lo dice esplicitamente, ma De Luca si rifà al metodo interpretativo rabbinico del midrash, che consiste in una continua sollecitazione del testo biblico, che non ha mai smesso di produrre significato. La cosa è interessante perché i testi di De Luca propriamente biblici, cioè le traduzioni e i commenti, possono coinvolgere e appassionare diverse tipologie di lettori: lo specialista o il profano, il cristiano o l’ebreo, il credente o il non credente.

È questo lo specifico deluchiano in ordine al rapporto con la Bibbia?

Direi proprio di sì. Il suo rapporto con la Bibbia si svolge in un contesto sostanzialmente solitario, ma si inserisce in una catena di letture e di lettori. Per lui la Bibbia è “sacra” proprio per questo, perché generazioni di lettori hanno dedicato il loro tempo a quel libro. Chiunque si accosta alla Bibbia è sempre l’ultimo anello di una catena. Per illustrare questo aspetto De Luca utilizza l’immagine biblica dello spigolatore che, come Rut, va a raccogliere ciò che è avanzato e così facendo aggiunge qualcosa. De Luca si considera uno “spigolatore”, nel senso che l’operazione di traduzione e di riscrittura cui sottopone il testo biblico si colloca in una linea di continuità con una tradizione di lettura – quella rabbinica in particolare – che aggiunge qualcosa di già contenuto ma di non ancora detto.

Per quale ragione Erri De ha tradotto solamente libri del Primo Testamento?

Questo è certamente un aspetto interessante. È un dato di fatto che De Luca, e lo ha ripetuto più volte, ha scelto di tradurre solo libri della Bibbia ebraica, che, come si sa, è scritta in ebraico. Lo ha fatto non perché non conosca il greco, ma perché lo considera una contraffazione dell’originale (usa proprio questa espressione). Per De Luca il greco del Nuovo Testamento è una lingua che non restituisce la freschezza e il carattere originario delle parole di Gesù. Sono quasi certo che, se i vangeli fossero stati scritti in ebraico, De Luca li avrebbe tradotti. Questo non significa che non gli interessino i racconti evangelici. Non li ha tradotti, ma li ha spesso commentati, soprattutto in relazione a Gesù e a sua madre (mi riferisco in particolare a In nome della madre e a La faccia delle nuvole).

Al termine del volume sostieni che Erri De Luca opera una lettura “spirituale” del testo biblico. In che senso?

Nel senso in cui lo intende la studiosa di ebraismo Catherine Chalier nel suo libro Leggere la Torà. Secondo lei una lettura spirituale rappresenta una via intermedia tra un approccio fondamentalista al testo biblico, che finisce per considerarlo un’entità astorica e immutabile, e un approccio storico-critico, che va alla ricerca di una presunta oggettività che solo la scienza storica può raggiungere. Invece, dice la Chalier, una lettura spirituale non nega e non oppone alla ragione, ma costringe la ragione ad aprirsi una dimensione trascendente di cui la Bibbia è espressione. Le parole della Bibbia sono parole umane dotate di una pluralità di significati e quindi richiedono una lettura che non può essere né solo spiritualeggiante né solo razionale. Ecco, mi sembra che la sottolineatura che De Luca fa del carattere sacro testo biblico rientri in questa dimensione: un continuo lavoro sul testo e su sé stessi. Quindi direi che, come il suo approccio alla Bibbia è laico ma non laicista, la sua lettura è spirituale ma non spiritualistica.

Da tanti anni tu “frequenti” per interesse e studio i testi biblici. Come spieghi l’analfabetismo ancora perdurante tra credenti e non credenti riguardo al “grande codice”?

Anzitutto, lasciami dire che, grazie a diverse iniziative editoriali e proposte culturali, molto diffuse sia a livello nazionale sia nella bergamasca, la situazione è migliorata rispetto al passato, anche solo per il fatto che l’analfabetismo biblico ha meno scusanti visto che sono aumentati gli strumenti a disposizione. E poi temo che l’analfabetismo ormai non riguardi più solo la Bibbia ma anche altri ambiti di conoscenza, dalla letteratura alla scienza, dalla storia alla politica. Venendo alla tua domanda, penso che la difficoltà principale sia far passare l’idea che la conoscenza della Bibbia non riguarda soltanto le comunità di fede, ma interessa un ambito più vasto, perché l’ignoranza della Bibbia è ignoranza dell’umano. Resta da sconfiggere una specie di riflesso condizionato che spinge molti a considerare la Bibbia come un libro tutto sommato irrilevante o, nei casi migliori, come la testimonianza di un passato ormai morto. È soprattutto in ambito scolastico che bisognerebbe insistere sul fatto che la conoscenza di temi e figure bibliche costituisce il presupposto indispensabile per comprendere più a fondo la cultura letteraria, artistica, filosofica, storica e giuridica dell’Occidente, nei suoi aspetti sia positivi sia negativi.

 

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