I martiri di Algeria. Una tragedia, una testimonianza
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
“Non volevamo essere martiri ma, piuttosto, segni di amore e di speranza”
I martiri di Algeria. Una tragedia, una testimonianza. E’ tornata prepotentemente la memoria di quella tragedia e ci è tornato alla memoria quello che fratel Jean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto al massacro dei monaci trappisti di Tibhirine in Algeria, disse a Giorgio Fornoni quando lo incontrò per un’intervista. Fratel Jean-Pierre è morto domenica scorsa all’età di 97 anni nel monastero di Midelt, in Marocco, unico trappa rimasta oggi in Nordafrica.
“Ci si sentiva come una famiglia”
Lui e fratel Amédée furono gli unici che scamparono alla strage avvenuta nel 1996. Ad Anna Pozzi che l’ha incontrato più volte ha ricordato con molta lucidità quella notte: “Ero in portineria, fuori dalla clausura. Ho sentito dei rumori: pensavo fossero venuti a prendere le medicine, come era già capitato. Poi quando è tornato il silenzio, qualcuno ha bussato alla mia porta. Ho avuto un po’ paura, poi ho aperto. Era Amédée, che mi ha detto: “Hanno portato via i nostri fratelli. Siamo rimasti soli, io e te””.
“La nostra presenza a Tibhirine – raccontava ad Anna – era innanzitutto un segno di fedeltà al Vangelo, alla Chiesa e alla popolazione algerina. Il mio ricordo più bello? È proprio quello della nostra comunità: l’ufficio del mattino, i lavori in comune, ma soprattutto le relazioni fraterne. Sì, le relazioni fraterne…”, diceva commuovendosi. “Ma anche quelle con i vicini. Non potevamo andarcene. Quando sono arrivato a Tibhirine nel 1964, c’è voluto un po’ di tempo per conoscerci reciprocamente. Poi, ci si sentiva come una famiglia”.
Proprio perché ci si sentiva una famiglia – “noi siamo gli uccelli ma voi siete il ramo su cui gli uccelli si posano”, dirà loro un giorno una giovane donna – i fratelli in modo unanime, non senza aver a lungo discusso dialetticamente, decidono di rimanere. Decidono anche quando, agli inizi degli anni Novanta, la situazione politica e militare degenera. Vogliono mostrare – unici cristiani dentro una terra totalmente abitata da mussulmani – una forma e uno stile fatto di vicinanza e di amicizia.
Per i monaci di Tibhirine il Vangelo non è una questione numerica ma una dichiarazione d’amore nei confronti del popolo algerino. Evidente in modo straordinario nel testamento del priore della comunità, frère Christian.
E’ uno dei documenti spirituali più significativi di tutto il Novecento:
Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che essi accettassero che l’unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.
Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche i quello che potrebbe colpirmi alla cieca.”
La testimonianza e la preghiera. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome…”
Un’amicizia che ha saputo abbattere i muri, creare fiducia, aprire porte inattese. Come quella sera, dopo compieta. Frère Christian torna in cappella e si mette a pregare, in ginocchio, tra l’altare e il tabernacolo. Ed ecco che a un certo momento sente una presenza accanto a sé e un mormorio che sale: “Allâh! Âkbar! (il Grande!)”. Tra un’invocazione e l’altra l’uomo sospira; dopo un po’ di tempo si rivolge a fr. Christian e chiede: “Preghi per me”.
Questi comincia a balbettare in francese una preghiera composta all’istante: “Signore unico e onnipotente, Signore che ci vedi, tu che unisci tutto sotto il tuo sguardo, Signore di tenerezza e di misericordia… insegnaci a pregare insieme”.
Anche l’ospite prega, il francese e l’arabo si mescolano. Poi giunge un altro e si unisce alla preghiera. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro!”. Sono trascorse tre ore; poi si lasciano in silenzio nella notte. Il terzo arrivato, anche lui un ospite musulmano, il giorno successivo commenta: “Tutto è semplice quando è Dio che guida”.
Fratel Jean-Pierre Schumacher e i suoi fratelli sono stati testimoni autentici del Vangelo e del Cristo che vince la morte e riconcilia le differenze.