I have a dream
[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]
Il sogno di Martin Luther King e il racconto di Paolo Naso
“Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.
Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere.
Ho davanti a me un sogno, oggi! Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza.
Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.”
Era il 28 agosto del 1963 e un giovane pastore battista di colore (che l’anno dopo sarebbe stato insignito del Premio Nobel per la Pace) infiammava le coscienze delle donne e degli uomini degli Stati Uniti. Il suo nome era Martin Luther King ed è stato l’emblema di una generazione. Che scendeva nelle piazze e cantava “We shall overcome”, che credeva possibile, con un ottimismo che pareva rasentare l’ingenuità, trasformare il mondo in modo nonviolento, superare ciò che nell’America di soli sessant’anni fa era considerato normale: fontanelle pubbliche separate per bianchi e neri, balconate altrettanto separate a teatro e così i posti negli autobus pubblici.
La sua eredità, ha continuato a ripetere il reverendo nero Jessie Jackson, con lui sulla terrazza dell’albergo di Memphis dove un cecchino mai individuato lo assassinò il 4 aprile del 1968, “è facile da ammirare, ma difficile da seguire. Ricordare King soltanto come un sognatore significa fare ingiustizia a lui e alla sua memoria”.
In quell’intervento profetico del 1967, noto come la marcia dei duecentomila e con il celebre discorso “I have a dream”, Martin Luther King sottolineò quattro punti: 1) il militarismo americano avrebbe distrutto la lotta alla povertà; 2) la superficialità americana produce violenza, disperazione e disprezzo per la legge negli stessi Stati Uniti; 3) l’utilizzo della gente di colore per combattere contro altra gente di colore all’estero è una manipolazione crudele dei poveri; 4) i diritti umani andrebbero misurati con lo stesso metro ovunque.
Temi di un’attualità straordinaria. Per raccontare attraverso parole, immagini e canzoni la vicenda umana e spirituale di Martin Luther King venerdì 7 ottobre, alle 20,45, presso la Chiesa di Sant’Andea in Città Alta, Molte Fedi propone una lezione spettacolo curata da Paolo Naso con Alberto Annarilli ed Elisa Biason (prenotazione obbligatoria dal sito di Molte Fedi: www.moltefedi.it).
Alcuni anni fa ho intervista Paolo Naso, autore di alcuni testi sul pastore battista, teologo protestante, docente all’Università La Sapienza di Roma dove coordina il Master in Religioni e mediazione culturale. Questo è il dialogo.
Qualche anno fa, hai scritto un testo sul pastore battista e hai usato il termine “l’altro” Martin Luther King. Qual è la ragione?
Ho voluto reagire a un’immagine stereotipata e convenzionale di una figura in realtà molto complessa, che non si può appiattire nell’icona dell’integrazionista nonviolento, moderato e realista, magari contrapponendolo ai leader più radicali del Civil Rights Movement. King fu certamente un profeta della nonviolenza nel XX secolo, certamente si ispirò alle idee gandhiane e certamente concepì un “fronte delle coscienze” composto da bianchi e da neri “insieme”.
Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni del suo ministero, le sue analisi politiche e persino le sue strategie di lotta si radicalizzarono: la retorica del “sogno americano”, così forte nel 1963 quando pronunciò il suo discorso più famoso a Washington, fece spazio alla denuncia dell’ “incubo” americano per venti milioni di neri, esclusi dalla ricchezza e dalle opportunità garantite ai bianchi che vivevano nel loro stesso paese, il più ricco al mondo.
Non a caso in quegli anni recuperò persino alcune idee del suo storico avversario, Malcolm X, soprattutto la convinzione che lo smantellamento del sistema di potere dei bianchi avrebbe richiesto molto tempo ed una dura lotta di massa in cui spesso gli afroamericani si sarebbero trovati soli. Negli ultimi anni King arrivò a denunciare le storture e le contraddizioni del sistema capitalistico e lanciò un monito politicamente molto rilevante: “America devi nascere di nuovo”! In quegli stessi anni ruppe con l’Amministrazione Johnson, quella che aveva concesso il diritto di voto agli afroamericani, perché aveva realizzato un’escalation militare in Vietnam; in quell’occasione, molti bianchi moderati gli voltarono le spalle e Martin Luther King divenne Martin Loser King, il perdente. Ecco, quando scrissi “L’altro Martin Luther King” volevo richiamare questa complessità.
Quali sono le radici evangeliche della scelta nonviolenta di Martin Luther King?
Sono decisive, vorrei dire assolute. Non vi è ombra di dubbio che, pur affascinato dalle tecniche gandhiane, King fu sempre un cristiano convinto e la sua prospettiva teologica fu quella dell’agape cristiana, non altro. Vorrei dire di più: King fu un cristiano coscientemente inserito nella tradizione del puritanesimo americano. Nel mio libro – “Come una città sulla collina” (Claudiana) – analizzo esattamente questo nesso e giungo alla conclusione che la forza spirituale di King ha la sua radice proprio in questo rapporto teologico con la storia, la teologia e la spiritualità dei primi coloni americani che giunsero nel New England con l’idea di costruire la Gerusalemme celeste: abbandonavano la corrotta Babilonia europea per costruire una città di Dio che fosse modello di carità cristiana. E’ questa è esattamente un’idea che ritroviamo in tutto il percorso teologico e politico di King.
Sono passati più di cinquant’anni dalla morte di Martin Luther King: cosa rimane e dove sta oggi la sua attualità?
La sua attualità sta nella forza della sua vision: basta leggere un qualsiasi discorso di King per verificare di persona che egli non parlava solo al cervello della gente ma anche e forse soprattutto al cuore. Tra gli anni ’50 e ’60 King ha espresso al meglio la capacità americana di imporsi un “cambiamento”. Ma l’attualità politica di King è anche più stringente: egli non si mobilitò solo contro il razzismo e il segregazionismo del Sud degli Stati Uniti, e morì denunciando il grande tema della povertà, negli Usa e in tutto il mondo.
Da una parte coglieva il “vento nuovo” che negli anni della decolonizzazione e della distensione tra Est ed Ovest stava cambiando gli equilibri mondiali; dall’altra si convinceva che questa “globalizzazione primaria” imponeva un cambiamento nell’ordine economico nazionale e internazionale. Temi molto attuali, purtroppo appena accennati quando – il 4 aprile del 1968 – King fu ucciso a Memphis.
Molti credono ancora che la nonviolenza significhi rinuncia. Cosa voleva dire per MLK scegliere l’impegno nonviolento? Quali sono le sue battaglie? Cosa ha voluto dire per lui disobbedienza civile?
La lotta nonviolenta di King ebbe obiettivi diversi: a Montgomery nel 1955 servì a lanciare una grande campagna per la desegregazione dei mezzi di trasporto; a Washington, nel 1963, King marciò per ottenere il diritto di voto per oltre venti milioni di afroamericani che ne erano esclusi; a Birmingham, sempre nel 1963, la mobilitazione nonviolenta servì a denunciare il fatto che, nonostante le leggi della desegregazione e le sentenze dei tribunali, gran parte del Sud restava segnato da pratiche e atteggiamenti razzisti; a Memphis, quando morì, King stava organizzando una grande marcia nonviolenta contro la povertà. Insomma gli obiettivi furono vari e diversi: la nonviolenza fu lo strumento politico e morale per fare breccia nella coscienza degli americani. Una strategia che registrò molti successi: prima del Civil Rights Movement, mai l’America aveva vissuto una stagione nella quale bianchi e neri, democratici e repubblicani, cristiani ed ebrei, musulmani e non credenti avevano partecipato insieme a una serie di grandi mobilitazioni politiche. Era un’America “arcobaleno” che abbiamo visto anche dopo la morte di King, ma non con la stessa continuità e intensità propria degli anni che vanno dal 1955 al 1968.
Le Chiese cosa possono fare per sostenere pensieri e azioni di pace? Perché fanno fatica a scegliere, in modo determinato, la via della pace e della nonviolenza?
Le Chiese, buona parte delle Chiese, non scelsero la via della nonviolenza neanche al tempo di King, neanche di fronte allo scandalo morale del razzismo e della segregazione. Quando nella Birmingham razzista del 1963 King e i suoi colleghi attuarono il progetto C – confrontation – ossia promossero una serie di mobilitazioni tese a far esplodere la contraddizione di un paese che da una parte aveva abrogato le norme segregazioniste ma che dall’altra lasciava che in molti stati restassero in vigore nei fatti, molti clergymen scrissero una lettera in cui accusavano i leader del movimento di promuovere un comportamento non cristiano, che turbava l’ordine della comunità civile, che creava divisioni tra i credenti e che, pur nonviolento nella forma, era estremista nei fatti. La risposta di King fu una “lettera dal carcere” in cui chiedeva se, a questa stregua, non fossero stati estremisti anche il profeta Amos e Gesù, Lutero e Thomas Jefferson: “Gesù Cristo, era un estremista dell’amore, della verità, della bontà, e in virtù di questo si è innalzato al di sopra del suo ambiente – scrisse. – Forse gli stati del Sud, la nazione e il mondo hanno un estremo bisogno di estremisti creativi”.