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Don Pino Puglisi, a trent’anni dalla morte. Se ognuno fa qualcosa

Don Pino Puglisi, a trent’anni dalla morte. Se ognuno fa qualcosa

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

don Pino Puglisi, il prete che dava fastidio perché curava i giovani e li sottraeva all’influsso malato della mafia. La testimonianza del prete, del martire. Trent’anni dopo

Quando il pubblico ministero Lorenzo Matassa ha concluso la requisitoria nel processo nei confronti dei quattro responsabili della morte di padre Pino Puglisi ha detto queste parole: “Ricordate, giudici della Corte d’Assise, cosa raccontò “il cacciatore” riguardo a ciò che avvenne dopo che don Giuseppe Puglisi fu ucciso? L’assassino riferì che lo Spatuzza Gaspare gli sottrasse il borsello e si impossessò delle marche della patente. Singolare assonanza con ciò che è scritto nel Vangelo secondo Giovanni dopo la crocifissione di Nostro Signore Gesù (19,25): “Si sono divise tra loro le mie vesti”. Ma questo, Spatuzza Gaspare e i suoi correi non potevano saperlo”. Come non potevano sapere che, un paio di anni prima, questo straordinario prete palermitano, riconosciuto beato il 25 maggio del 2013, aveva scritto:

La testimonianza cristiana è una testimonianza che diventa martirio. Infatti testimonianza in greco si dice martyrion. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza.

Essa servirà a dar fiducia

a chi, nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società che vede ostile… A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non cos’è la speranza, ma chi è la speranza. La speranza è Cristo, e si indica logicamente attraverso una propria vita orientata verso Cristo.

Un prete che scava nelle coscienze

Figlio di un calzolaio, don Pino Puglisi, 3P, treppì come lo chiamavano i suoi ragazzi, era nato a Palermo il 15 settembre del 1937 a Romagnolo, una borgata a pochi passi da Brancaccio, il quartiere di cui diventerà parroco e nel quale nascerà il suo assassino. Poco prima del diploma magistrale matura la vocazione. E’ prete a Palermo, nella borgata di Settecannoli, poi parroco a Corleone, nella frazione di Godrano. Sarà il cardinale Pappalardo a spostarlo a Brancaccio, nella periferia orientale della città.

Il posto lo conosce bene, conosce bene la mentalità, la gente e il suo difficile modo di tirare avanti. Sa che il problema principale è il lavoro e che, sulla sua mancanza, la mafia mette facili radici con le sue allettanti proposte. La formazione, l’istruzione potrebbero far molto, ma a Brancaccio, fino a pochi anni fa, non c’è neppure la Scuola Media.

Puglisi comincia allora a lavorare coi più giovani, coi ragazzi: è convinto di essere ancora in tempo per formarli e per dar loro dignità e speranza. Per i suoi “figli” fonda il Centro “Padre nostro”. “Coi più piccoli – diceva – riusciamo a instaurare un dialogo. I più grandicelli sfuggono, sono attirati da altre proposte”. Il suo assassino racconterà nella deposizione: “Cosa nostra sapeva tutto. (Che andava) in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e fare requisire gli scantinati di via Hazon. Sapeva del Comitato intercondominiale, delle prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare.”

Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Alla mafia soprattutto

Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive diverse. Cominciano allora gli “avvertimenti”: una ad una vengono incendiate le porte di casa dei membri del comitato. Poi le minacce, sempre più dirette, e il pestaggio di un ragazzo del Centro. Ma ad ammazzare un prete, fino ad allora, la mafia non si era ancora spinta. La chiesa era, tutto sommato, un territorio ancora franco. Se ne poteva sperare comprensione, rifugio. Ma quel prete…

Arriva allora la condanna. Il killer viene allertato. E’ la sera del 15 settembre di trent’anni fa: “Lo avvistammo in una cabina telefonica. Era tranquillo. Che fosse il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza gli tolse il borsello e gli disse: Padre, questa è una rapina. Lui rispose: Me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso… Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso… Io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo ancora provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci: si era smosso qualcosa”. 

Lui rispose: Me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso… Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso

Nei mesi immediatamente precedenti al suo delitto, bombe della mafia erano esplose a Roma in via Fauro (14 maggio), a Firenze in via dei Georgofili, nei pressi degli Uffizi (27 maggio), a Milano in via Palestro (27 luglio) e di nuovo a Roma, in quella stessa notte, davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro: 10 morti (tra cui due bambini), 95 feriti, danni per miliardi al patrimonio artistico.

Secondo i collaboratori di giustizia, un altro attentato era stato preparato per settembre: un’auto imbottita di esplosivo doveva saltare davanti allo stadio Olimpico di Roma. Il progetto non ebbe esito proprio per l’intensificarsi delle indagini dopo il delitto Puglisi. Si consumava così, dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio che avevano coinvolto nel 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un altro drammatico momento della storia italiana. Il 9 maggio 1993, ad Agrigento, Papa Giovanni Paolo II aveva scagliato un terribile anatema contro la mafia:

Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. […] Nel nome di Cristo […], mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!

Come senza precedenti era stato il discorso del Papa ad Agrigento, così senza precedenti fu la risposta dei boss, da Roma all’uccisione di padre Pino Puglisi.

Se ognuno fa qualcosa…

“Chi era 3P?” chiedo a Maurizio Artale, il responsabile del Centro Padre Nostro. “Era un prete diocesano che aveva una grande passione per Dio e, insieme, una grande passione per gli uomini. Io non ho lavorato con lui; sono arrivato qui a Brancaccio subito dopo la sua uccisione. Ricordo però che qualche mese prima della sua uccisione passai da questa strada che allora non frequentavo. Quella sera vidi don che stava facendo una processione con il Santissimo, andava in giro per le strade con l’ostensorio. Mi fermai incuriosito perchè una processione eucaristica  ormai non si faceva più da nessuna parte. Lui invece ci teneva, voleva che la comunità cristiana fosse uno spazio aperto, dove gli uomini e le donne imparassero che la regola del vangelo, la regola dell’eucarestia, è la condivisione e l’accoglienza.”

Non è un caso che nell’agguato di quel 15 settembre i suoi giovani assassini lo chiamano parrino: prete in siciliano, ma con un’ assonanza e una radice che rimandano al padre. Questo fanno, che lo sappiano o non lo sappiano: uccidono un padre, e con lui pensano di continuare a uccidere la loro stessa speranza.

La mafia sommersa

Come è cambiata la mafia in questi anni? chiedo ancora a Maurizio. “Oggi la mafia ha scelto di scomparire. Mi spiego: dopo le stragi degli anni novanta la mafia capisce che deve usare un’altra tecnica, quella della sommersione. Perché questo le permette di continuare a fare affari, di continuare in qualche modo a colludere con i politici corrotti. Oggi, lo ripetiamo molto spesso, siamo in una società dove l’apparire è tutto. Una persona che vuole diventare qualcuno a tutti i costi – e sa che la politica lo può fare diventare qualcuno – è disposto a vendersi l’anima pur di diventare assessore, onorevole, deputato. Per arrivare a quello, va dalla mafia e dà la sua disponibilità. I mafiosi scommettono su di lui, gli fanno avere i loro voti ma, una volta insediato nel posto che ambiva occupare, deve fare quanto gli viene detto.  Questo è ciò che si è scoperto negli ultimi anni ed è ciò che è accaduto a molti assessori, deputati nazionali, deputati regionali, senatori collusi con la mafia. La mafia oggi non fa più rumore, così la gente non ha motivo di scendere in piazza e resta tranquilla, abbassa la guardia. 

La mafia oggi non fa più rumore, così la gente non ha motivo di scendere in piazza e resta tranquilla

Tempo fa, qui al Brancaccio, abbiamo organizzato una mostra di foto d’epoca del quartiere invitando la gente a portarcele.  Mentre commentavano le foto, due anziani dicevano: “Bei tempi quelli: uscivamo di casa lasciando la porta aperta, nessuno entrava. Oggi invece non siamo sicuri e rischiamo furti e scippi ogni giorno”.

Dissi loro che avevano ragione ma ho domandato: “Vi siete mai chiesti a venti metri da casa vostra cosa andavano a fare quello persone che entravano in quattro e uscivano in tre? Sapete che lì c’era la camera della morte dove le persone venivano sciolte nell’acido?” “Ma io cosa c’entro?” E’ stata la loro risposta. Oggi invece è cambiata questa sensibilità: la gente se vede un sopruso non lo accetta più e lo denuncia.”

Ma dove sta la presunta sacralità attribuita alla mafia? “La gente ha fiducia nel mafioso perché se questi dice una cosa poi la fa. Il mafioso parla pochissimo, spesso non parla affatto, compie gesti, usa simboli che vengono subito compresi. Lo Stato latita. Don Pino diceva che la lotta alla mafia passa attraverso la scuola e per questo si era battuto tanto perché ci fossero scuole qui al Brancaccio.  Ma se questo non sa leggere e scrivere come dobbiamo lottare? Se tu non hai un lavoro, come posso combattere la mafia che invece il lavoro alla gente lo offre?”

Il sangue dei martiri

Don Gigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e Presidente di Libera, ha scritto che “Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito della sua chiesa annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera”.  

Trent’anni dopo, il seme caduto ha dato frutto. In abbondanza

“Sull’esempio di Gesù, Don Pino Puglisi è andato fino in fondo nell’amore: ha prediletto i piccoli e gli indifesi, li ha educati alla libertà, ad amare la vita e a rispettarla. E ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue”. Così papa Francesco in un tweet, nel giorno del trentennale della morte. In un altro tweet il Pontefice aggiunge: “Don Pino Puglisi amava dire: ‘Se ognuno di noi fa qualcosa, allora possiamo fare molto’. Sia questo l’invito per ciascuno a saper superare le tante paure e resistenze personali e a collaborare insieme per edificare una società giusta e fraterna”.

Trent’anni dopo, il seme caduto ha dato frutto. In abbondanza.

 

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