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Don Bruno Ambrosini. Prete e operaio

Don Bruno Ambrosini. Prete e operaio

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

La Chiesa di Albino gremita in ogni ordine di posto, un’eucarestia essenziale e ben curata, parole – sia del Vescovo che di don Castellazzi, suo compagno di ordinazione – segnate da autenticità, parresia e grande rispetto per un credente che ha giocato la vita per il Vangelo e per i poveri

Così lunedì scorso è stato il funerale di don Bruno Ambrosini, uno degli ultimi “preti operai” di Bergamo. Un uomo schivo che ha cercato di custodire sempre l’essenziale, un prete di sostanza, un cercatore instancabile di sentieri di pace e di giustizia.

Voglio ricordarlo riproponendo un suo scritto pubblicato vent’anni fa in  “Cinquant’anni della FIm-Cisl di Bergamo”

Don Bruno, una piccola testimonianza di una piccola storia

Vorrei semplicemente, dalla grande storia, fare una piccola testimonianza di una piccola storia. 

Io sono entrato in fabbrica alla Dalmine tramite un’impresa la Cei. Quando al mio vescovo ho detto che lavoravo presso la Cei, era monsignor Gaddi, quasi è saltato sulla sedia e fa: “Come?”. “Sì, lavoro alla Compagnia elettrica italiana”.

E lì alla Dalmine ho incontrato la Fim, c’era Bruno Provasi, e in quel momento c’erano ancora 150 operai delle imprese di appalto. Quelli della Dalmine sanno che fenomeno fosse. Fu la Fim a farsi carico di questo problema. Questi lavoratori se non erano proprio gli ultimi, di sicuro erano i penultimi. Nelle prime trattative con la direzione Dalmine, ci trattavano da marocchini sul famoso finchel della acciaieria nuova.

Non ho fatto scelte. Ho trovato questa presenza, questa sensibilità e mi sono messo dentro e così ho lavorato per parecchi anni. Non sono mai stato assunto in Dalmine. Gianni Chiesa è riuscito a farsi assumere. Sono andato in prepensionamento nell’88. Io sono un prete operaio.

In Ecuador, tra i profughi dall’Honduras

A un certo punto dall’America latina, dal Salvador, è arrivato un invito. Avevano bisogno di persone che avessero una certa sensibilità ad assistere al fenomeno del rientro dei profughi dall’Honduras che cominciava nell’88. Ecco, là mi sono sentito in perfetta continuità a vivere per alcuni anni. In Salvador nell’88 era in peno sviluppo la guerra civile che è durata 10 anni e ha fatto 75.000 morti su una popolazione di 5 milioni. Lì facevo il prete a tempo perso, anche perché bisognava soprattutto camminare (ed ero diminuito parecchio di peso) e svolgere proprio un lavoro di assistenza in una zona sotto controllo della guerriglia.

Quando tornavo in Italia e parlavo che c’era in ballo una guerra civile, una rivoluzione, una guerra di liberazione, qualcuno mi diceva: “Ma è ancora una parola che si può usare questa?’”. Ecco ho conosciuto molto da vicino l’esercito di liberazione, era formato da cinque organizzazioni molto diverse tra di loro e garantisco che ho incontrato persone di un livello etico da noi quasi sconosciuto. Ecco semplicemente questa piccola storia e poi oggi alcuni accenni anche un po’ consistenti sull’internazionalismo.

Io credo che occorre davvero assumere una visione molto più ampia. Oggi di internazionalismo non si parla. Il Salvador è un buon produttore di caffè. Mi hanno detto che il caffè Lavazza è fatto in buona misura con il caffè salvadoregno. Ma i salvadoregni non bevono caffè perché costa troppo. Quando sono partito io una libra di caffè, in un Paese che produce caffè, costava 40 corone ed era un salario e mezzo di un operaio che lavorava su una strada per il Comune. Questo vi dà l’idea: noi consumiamo caffè loro lo producono. Questa è la globalizzazione. Ma lo producono per l’estero. Noi dobbiamo entrare in una visione molto più ampia. Chi parla di farsi carico degli ultimi deve porsi la domanda: chi sono i veri ultimi anche qui fra di noi? Io adesso sono un po’ dentro con la Caritas, seguo gli immigrati. Gianni Chiesa è dentro a tempo pieno sul problema della casa. Si fa fatica a trovare una casa per gli immigrati, chiediamoci perché. Ci sono problemi, certo. 

La difficoltà di capire una “storia dal basso”

Faccio da stampella a un altro prete in un paesino di 1200 anime, due preti e ne avanza, ma la fatica di far cogliere questa cultura nuova, questo vedere la storia dal basso, è tanta. E’ veramente difficile. Io ho imparato in fabbrica. Eravamo i marocchini della Dalmine. In Salvador vedevo la cosa che si impara passando anni e coinvolgendosi, non andando giù da occidentali a imporre visioni. E’ un vedere la storia dal basso, vedere la storia dalla parte degli ultimi e quando si torna qui quel cambiamento non lo si perde più. Io sono convinto che qui da noi c’è un’opportunità enorme, proprio di un cambiamento culturale ed è di rimettere in discussione tutti i nostri parametri, i nostri modi di vedere i progetti di vita. 

Volevo semplicemente dare un piccolo contributo per maturare dentro le esperienze che facciamo.

L’ultima cosa che vorrei dire riguarda l’organizzazione. Tutti i preti operai dicono che entrati in fabbrica, la prima cosa che hanno dovuto fare è stata purificarsi di tutti i segni di ruolo che avevamo e che in buona misura i preti hanno ancora perché sei dentro qualcosa molto più grande di te, che senza di te non può funzionare ma che tu non puoi determinare. Devi semplicemente dare tutto.

Ecco, nel Salvador succedeva la stessa cosa, un’emergenza continua e il sentirsi parte di qualcosa di molto più grande che ha un orizzonte grandissimo che tu ci sei e ci devi stare ma che non dipende da te.

Allora semplicemente la fede diventa qualcosa di veramente serio, il credere nelle cose, l’assumere fino in fondo. Facendo esperienza della tua parzialità, della tua provvisorietà e della tua fragilità, il nostro limite, la nostra provvisorietà è un cammino di saggezza che auguro a tutti.

 

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