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Don Angelo Casati compie novant’anni. Auguri ad un uomo appassionato di Vangelo e di bellezza.

Don Angelo Casati compie novant’anni. Auguri ad un uomo appassionato di Vangelo e di bellezza.

[Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Mi fa un po’ fatica usare quel “don” pomposo davanti al suo nome. Ma è anche giusto ricordare che è proprio quel “don” che mette in risalto la sua originalità nel mondo della chiesa. Diceva Paolo De Benedetti che è solo perché esistono preti come lui che in fondo la chiesa continua a meritare un po’ di rispetto.” Così Gabriella Caramore, che per molti su Rai Radio 3 ha curato e condotto Uomini e profeti, ha scritto l’altro giorno sulla sua pagina Facebook a proposito del novantesimo compleanno di don Angelo Casati. Nel lungo e affettuoso post parla del valore di questo straordinario prete ambrosiano che anni fa ho incontrato per una chiacchierata su un testo che aveva da poco pubblicato, Sussulti di speranza. Un parroco si racconta (Ancora Edizioni). Un libro di grande umanità, un libro di Vangelo. Un dialogo fitto di parole troppo spesso dimenticate da molti cristiani “militanti” ma non innamorati: speranza, passione per l’uomo, per il mondo e per il Vangelo, accoglienza, cura e relazione. Ricordo un’ora e mezza di grandissima consolazione. Alla fine ci eravamo lasciati come se ci fossimo incontrati da sempre. 

L’altro giorno, per ringraziare i moltissimi amici che lo hanno ricordato e festeggiato, don Angelo (autore anche di libri di poesia) ha mandato alcune righe. Che dicono di lui, del suo sentirsi mendicante innamorato. Della vita, degli altri, del Vangelo.

Ad amiche e amici.
Sulla soglia
dei miei novant’anni.

Ancora mi accende
desiderio
di sedermi con te
e insieme
perdutamente ringraziare
perdutamente raccontare 
perdutamente ascoltare.

Nel suo libro si sentono respirare venti di libertà. Perché è così difficile sentirli soffiare nella chiesa di oggi? 

Penso sia soprattutto una mancanza di apertura al Vangelo perché quando apri il vangelo, leggi la vita di Gesù, i suoi gesti e le sue parole provocano questo sconfinare totale.  Provi davvero la percezione del vento dello Spirito sceso su di lui in pienezza e che lui comunicandolo mostrava essere uno Spirito di libertà. Ricorda il discorso notturno di Nicodemo? Quelli che sono nati dallo Spirito e portati dallo Spirito sono come il vento che soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così dovrebbero essere coloro che credono. Invece a me sembra che i cristiani sappiano benissimo da dove vengono e dove stanno andando. Siamo bloccati all’interno di questi schemi. Uno ci guarda e dice: “Questo farà così e dirà così..” Non c’è sorpresa, siamo codificati, più legati ai documenti che non ispirati al Vangelo. Che, non dimentichiamolo, apre il modo di pensare e di agire, proprio come il modo di pensare e di agire di Gesù,  uomo di una libertà sorprendente. 

Ha scritto pagine molto belle ma molto dure sulla religiosità che indispone alla ricezione del Vangelo.. 

Enzo Bianchi in uno dei suoi articoli per “La Stampa”  riporta una citazione di quarant’anni fa di Ratzinger che diceva: “la Chiesa è per molti l’ostacolo principale alla fede”. E’ vero, sempre più oggi troviamo persone che dicono “non parlateci di Dio, non parlateci di Chiesa” ma parlateci di Gesù. Spesso invece succede che noi cristiani parliamo di tutto ma non parliamo di Gesù e del Vangelo. Credo che dovremmo tornare lì, non abbiamo altra chance. Pastoralmente penso al gesto che è la cifra della vita di Gesù, il gesto dell’accoglienza. Nel Vangelo c’è scritto che Gesù accogliendo parlava al popolo e che il Regno di Dio era già annunciato. Troppe volte pensiamo all’impegno pastorale solo come preoccupazione di cosa dire e come dire, dimenticando che il Regno viene aprendosi all’altro. Non c’è altro modo.

Forse abbiamo ridotto il cristianesimo alla morale e noi ci sentiamo custodi gelosi di essa..

Si, ha ragione. La buona notizia non è l’osservanza delle regole, ne la morale che verrà dopo.  Un Dio che ci converte non è un Dio che ci fulmina se non siamo buoni, altrimenti che buona notizia è? La buona notizia è Dio che ci viene a cercare, noi perduti, smarriti da dove siamo, e che ci cercherà fino alla fine. C’è un testo di Agostino che dice: “Temo Dio che passa perché non so se ritorna”. Una frase che può essere interpretata come un gesto che sollecita la nostra risposta  ma può anche prestarsi a cattive interpretazioni. Penso invece che Gesù verrà, ritornerà fino alla fine perché è venuto a cercarci fino sulla croce. Una predicazione che si appiattisce sul registro della morale in fondo non comunica la buona notizia.. Certe volte mi chiedo la ragione per la quale Gesù non ha evitato lo scandalo di mangiare con i peccatori, non è tornato indietro.  Perché  quel gesto andava al cuore del messaggio del vangelo e cioè che Dio ci ama non perché siamo buoni, ci ama ed è fedele  anche quando siamo peccatori. Non si sarebbe scandalizzato a vedere dei peccatori convertiti. Questa è l’accoglienza che apre il cuore, che accosta le persone al Vangelo. E’ l’accoglienza della Chiesa?

Se è cosi ovvio, perché è cosi difficile nella chiesa di oggi?


Me lo chiedo spesso anch’io. Non tutti siamo biblisti o persone dotate di carismi eccezionali però la capacità di accogliere è alla portata di ciascuno. Vuol dire uscire un po’ da noi stessi, dal nostro orto recintato, dai nostri pregiudizi, per accogliere l’altro, poter dare spazio all’altro dentro di noi, all’ascolto dell’altro cosi come è.  Qualche volta vuol dire anche essere feriti perché un modo più sicuro di non essere feriti è quello di non amare nessuno ma se ami e ti consegni nella mani dell’altro, come ha fatto Gesù,  non sai cosa può succederti. Ma senza rischio non c’è l’amore..

A volte, pare che siamo preda di una deriva identitaria che ci fa sentire padroni della verità…

Io non ho la verità, sono in cammino verso la verità. Non dico che non esiste ma quello che percepisco io della verità è ancora poca cosa. Per questo ciascuno di noi si sente relativo quanto all’orizzonte sconfinato della verità, si sente piccolo, capisce qualcosa  e altro non capisce. Quest’aria di possessori della verità rompe il dialogo perché se io posseggo tutta la verità l’unica cosa possibile è il monologo. Il dialogo nasce invece dalla consapevolezza  di non sapere tutto, e che l’altro ha qualcosa da darmi, da offrirmi. Più che di verità a me piace parlare di svelamento, di rivelazione che continua e che si svela qualcosa..  Un giorno contempleremo Dio e la verità faccia a faccia ora vediamo in modo confuso. Perché, come chiesa, non possiamo dirlo?

Il suo libro è ricco di volti e di storie..

Quando ero giovani rimasi affascinato da un testo di Italo Mancini dove veniva fatta una disanima del pensiero occidentale segnato dall’io arrogante, prepotente, dall’ingombranza dell’ “io sono”. Un pensiero che è poi sfociato nel totalitarismo di vario genere e colore. Mancini sosteneva la necessità di un rovesciamento: passare dalla cultura dell’ “io sono” alla cultura della varietà dei volti. “Ritornino i volti”.. Se penso alla Bibbia essa è fatta di un Dio “di Abramo Isacco e Giacobbe”, di Gesù e dei volti che incontrava. E’ bellissima questa cosa: un volto da guardare, contemplare, accarezzare. Questo esige rispetto, anche per il mistero che il volto dell’altro inevitabilmente racchiude.

Il Dio dei cristiani è questo, no?

Gesù non è stato il Dio della distanza, del disprezzo, della fuga. Al contrario, la sua carne, la sua vita e la sua morte hanno svelato il volto di un Dio che è vicinanza, compassione, immersione. L’immagine che ci resta di lui leggendo i vangeli non è quella della frequentazione dei templi ma della frequentazione della vita: strade, laghi, case, la casa dove si banchetta, dove si piange, la casa dove qualcuno ti profuma, e volti, volti, liturgia dei volti. Uomo dello spirito non perché fuori dalla vita, ma perché capace di leggere i segni dello Spirito nella vita, capace di animare la vita con il vento del suo Spirito. Così diverso da coloro che parlano di Spirito e non hanno occhi per vederlo all’opera nel mondo o cuore per soffiarlo sulla brace.

Penso a quanti lavorano nella pastorale. Come è possibile fare spazio, dare tempo agli altri?

Non voglio dire che sia facile.. Credo ci sia qualcosa da sfrondare nell’aspetto organizzativo delle nostre comunità per creare più relazione, più comunicazione.  Creare la relazione è la priorità.  Penso anche che  sia importante il rispetto del volto e della storia dell’altro. Io come prete lo vivo e sono chiamato  a viverli nel momento dell’incontro personale ma anche in quello comunitario. C’è un modo di comunicare che è sfogo che cancella, emargina; ci sono modi di fare pastorale che non sempre sono rispettosi, anche li dovremmo avere più attenzione. C’è  qualcosa di prezioso in ciascuno e questo deve apparire evidente fra di noi. Anche quando celebriamo un sacramento, gesto di accoglienza per eccellenza.

Che rapporto c’è tra verità e carità?

Se penso che Gesù ha detto: “Sono  la via, la verità e la vita” penso che  la verità, la colgo nella vita, nella vita di Gesù e allora penso che la verità è questa vita di Gesù, la rivelazione dell’amore di Dio. A me piace la definizione che veniva data alle prime generazioni  di cristiani, dei seguaci di Gesù: “Sono quelli della via”. Sono per strada, a rintracciare frammenti di verità dentro le storie degli uomini e delle donne del loro tempo che camminano con loro, a condividere la vita.

Significa che il credente è abitato da una inquietudine..

La fede convive con il dubbio, la ricerca. Ricordo che in una delle prime sessioni della Cattedra dei non credenti promossa dal cardinal Martini a Milano venne invitato a parlare Massimo Cacciari. Quella sera disse: “Trovo scritto nel vangelo  ‘io credo Signore ma tu aiuta la mia incredulità’. E’ una  delle preghiere che mi piacciono di più.” Lo penso anch’io: “Io credo, Signore, ma tu aiuta la mi incredulità” è una preghiera che rende nuovo il cammino altrimenti sarei fermo. Aver come compagni di viaggio persone che si interrogano è una grande fortuna, guai se spegniamo le interrogazioni. Ricordo che Paolo De Benedetti mi disse una volta della differenza tra la trasmissione della fede in campo cattolico e in campo ebraico. Da noi si danno delle risposte prima ancora che sorgano le domande; in campo  ebraico, si suscitano le domande e poi si danno le risposte. Pensi al bambino che alla celebrazione della pasqua domanda: “che cosa stiamo facendo?” Quella domanda suscita la risposta, sollecita un racconto.  Noi invece abbiamo sempre bisogno di dire tutto. Come se sapessimo sempre tutto di tutti e per questo ci sentiamo autorizzati ad intervenire in tutti i campi. Ci sono invece delle zone grigie che dobbiamo cercare di capire ed esplorare. Con tanto rispetto, silenzio, ascolto.

 

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