Domenica 8 maggio 2022
IV domenica del Tempo di Pasqua
Gv 10,27-30
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
COMMENTO DI DON ALBERTO VITALI, ASSISTENTE SPIRITUALE DELLE ACLI DI MILANO
Una voce che fa la differenza
Ogni anno nella quarta domenica di Pasqua la liturgia ci presenta Gesù quale pastore universale. L’immagine è squisitamente biblica e affonda le radici nella memoria dei patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe erano pastori e Israele lo fu per gran parte della sua storia. Non v’è dubbio però che il personaggio principale cui l’immagine deve la sua fortuna sia il re Davide. Pastore nel vero senso della parola: dovettero andare a cercarlo tra le pecore quando Samuele si recò a casa di suo padre per ungerlo re (1Sam 16), con lui il termine divenne un titolo identificativo della funzione monarchica in Israele. Il re-pastore era dunque colui che doveva guidare e prendersi cura delle pecore-popolo. E qui la nostra intelligenza viene messa a dura prova: oggigiorno infatti dare a qualcuno della pecora non è un bel complimento; significa piuttosto trattarlo da ingenuo, incapace di scegliere con la propria testa, uno che senza idee proprie va dietro la massa. In sintesi: un tonto. Se vogliamo perciò cogliere il valore della metafora – anche e soprattutto perché il problema si ripropone e a maggior ragione con Gesù – dobbiamo fare in modo che la pur giusta sensibilità della nostra epoca si trasformi in pregiudizio, impedendoci di comprendere il patrimonio simbolico di altre culture. Capacità di cui, tra l’altro, abbiamo urgentemente bisogno, non soltanto in ordine al passato, ma ancor più al presente e al futuro, in un mondo che si sta globalizzando sempre più velocemente; prima che sia troppo tardi. Ebbene, il pastore non era semplicemente padrone delle pecore, ma condivideva la loro sorte. I giorni e le notti, i pericoli e il riposo. Le pecore dipendevano dalla capacità del pastore di scegliere i pascoli, in mezzo a tanto deserto. Il pastore e la sua famiglia avevano quale unica fonte di sostentamento le pecore. Per lui le pecore non erano semplicemente un gregge: le conosceva una per una. Per questo Gesù può raccontare con sano realismo che, pur tra cento pecore, il pastore si accorge di averne persa una e va a cercarla (Mt 8,12-14). A loro volta, le pecore conoscevano la voce del pastore e questo faceva la differenza affinché pur in mezzo a centinaia di greggi, che passavano insieme la notte, al mattino seguissero lui solo. E noi? Troppo spesso occupati a delimitare i confini, preoccupati come siamo di difendere le nostre fragili identità, siamo forse finiti a valorizzare più gli ovili che la voce del pastore. Perché se una cosa è evidente nel capitolo decimo del vangelo di Giovanni, cui appartiene la breve pericope che oggi ascoltiamo, è che Gesù non s’è mai preoccupato di definire il recinto. Anzi, in aperta polemica con il sistema religioso-oppressivo del tempio, dice chiaramente d’essere venuto a liberare le pecore, portandole fuori da quella gabbia (Gv 10,4), in cui le sbranavano gli stessi «pastori» che avrebbero dovuto curarle. In realtà, si tratta d’una polemica antica: mediante i profeti, più volte Dio aveva accusato i «pastori d’Israele» (prima i re, poi i sacerdoti) d’aver tradito la loro missione; e per bocca di Geremia (23,3) aveva promesso che sarebbe venuto lui stesso a raccogliere e guidare le sue pecore. Ora, guardando a Gesù e ai primi tentativi d’annuncio compiuti dagli apostoli, la comunità cristiana primitiva capisce che Dio ha definitivamente mantenuto quella promessa. Sorge però un altro problema: molti non vogliono ascoltare e rifiutano di seguire il pastore, per restare aggrappati alle proprie tradizioni e vecchie appartenenze. Paolo e Barnaba lo sperimentano anzitutto ad Antiochia, con i Giudei, ma si ripeterà in molte altre occasioni; mentre l’autore del quarto vangelo – scrivendo alcuni decenni dopo – tocca con mano che il problema riguarda ormai la stessa comunità di Gesù. Lasciarsi portare fuori dai propri schemi, dalla propria mentalità, dai propri pregiudizi è qualcosa che fa sempre paura. Anche l’antico Israele aveva fatto resistenza all’esodo ed era costantemente tentato di rimpiangere il passato, per quanto fosse un passato di schiavitù. Dio però non arretra e nessuno può fermarlo: Gesù è venuto a realizzare una missione universale. Tutti, non uno di meno, sono chiamati a seguirlo, perché lui è il pastore di tutti. Il veggente, confinato «Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (Ap 1,9) contempla il coronamento di questa missione. Nel giorno del Signore vede: «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua». E’ uno spettacolo grandioso, ma non qualcosa che Dio compirà miracolosamente all’ultimo momento. Al contrario, è esattamente quanto il pastore-risorto sta realizzando nella storia. Che fosse questo il progetto di Dio lo si era capito fin dall’inizio, quando anziché tanti popoli aveva creato una sola coppia originaria (Gn 1-2) e poi ancora la sera di Pentecoste (At 2). Letta quindi alla luce delle Scritture, la globalizzazione che l’umanità sta vivendo non è un mero fenomeno economico e sociale, bensì spirituale e salvifico. Intanto però quella voce continua a chiamare: bisogna che ciascuno decida e risponda.
[da “Venite, è pronto!” Commento ai Vangeli festivi Anno C di don Alberto Vitali, Edizioni Paoline]