Domenica 15 maggio 2022
V domenica del Tempo di Pasqua
Gv 13,31-35
Dal Vangelo secondo Giovanni
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
COMMENTO DI DON ALBERTO VITALI, ASSISTENTE SPIRITUALE DELLA ACLI DI MILANO
La gloria di Dio è l’uomo che ama
Parafrasando il celeberrimo detto di S. Ireneo: «L’uomo vivente è gloria di Dio» (Adv. Haer. IV,20), potremmo riassumere l’interpretazione che Gesù offre ai discepoli di quello che sta per succedere e l’applicazione che ne fa alla loro vita in questi termini: l’amore che da sempre lega il Padre e il Figlio si manifesterà riversandosi pienamente sugli uomini e questi ne diverranno testimoni, nella misura in cui sapranno amarsi allo stesso modo. Nel linguaggio giovanneo infatti la «gloria» è la presenza di Dio: non però una presenza statica, semplicemente ontologica, bensì dinamica. E’ amore in atto, amore che salva. Il gruppo si trova ancora nel cenacolo, Gesù si suppone abbia appena istituito l’eucaristia (il quarto vangelo non ne parla) e ha lavato i piedi ai tutti i discepoli (Giuda compreso), spiegandone il significato. Quasi a dire che non ce la facesse più a sopportare tanto scarto tra l’amore esagerato di Gesù e l’intenzione che si portava nel cuore, Giuda nemmeno aspetta la fine della cena per andarsene inosservato: dopo l’annuncio del tradimento, si alza ed esce. L’«Ora» che a Cana non era ancora giunta (Gv 2,4) è finalmente arrivata. Non si tratta semplicemente del momento: abbiamo qui un’altra particolarità del vocabolario teologico giovanneo. L’Ora, con l’iniziale maiuscola, è la Pasqua, l’ora della glorificazione: mostrando sulla croce l’estremo cui giunge l’amore di Dio per l’uomo, Gesù lo «glorifica» manifestandolo definitivamente per quello che è. L’amore infatti non è un semplice attributo divino, bensì la sua stessa natura. Dio è questo e non altro, senza se e senza ma. Tutto quello che di diverso era stato detto e scritto nei secoli precedenti, da chicchessia – fossero anche Mosè e i profeti – deve essere rivisto e superato. Per non parlare di quanto invece è stato scritto nei secoli successivi: la buona fede non può giustificare l’ignoranza di chi, non essendosi formato alla scuola della rivelazione, ha fantasticato su Dio, mosso da un insieme di devozione e psicosi; molto meno chi aveva il dovere di vigilare e non l’ha fatto. Dio non è buono ma anche inflessibilmente giusto, per soddisfare le pretese di retribuzione di qualcuno o non smentire le visioni di certi supposti beati. Gesù, il solo rivelatore del Padre, lo ha glorificato/rivelato così, e in nessun altro modo. E il Padre, a sua volta, ha glorificato Gesù, non semplicemente dandogli ragione col resuscitarlo dai morti, ma associandolo alla propria signoria sul mondo: dandogli «il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (cfr. Fil 2,9). Quando ne parla è ancora soltanto la vigilia della sua morte, ma Gesù lo fa come se tutto fosse già avvenuto, perché ormai nulla si fermerà: né la macchina del tradimento né, a maggior ragione, l’irrefrenabile amore di Dio. Gesù lo spiega ai discepoli perché non ne saranno beneficiari soltanto passivi: l’amore di Dio è un vortice che risucchia e trasforma le persone amate in amanti, capaci di amare a loro volta, non soltanto Dio ma tutti, secondo la Sua stessa misura. Soltanto così si spiega l’impennata del comandamento nuovo: se già non era semplice, e men che meno spontaneo, «amare il prossimo come se stessi» (Lv 19,18), anche in considerazione del fatto che spesso non sappiamo amare nemmeno noi stessi, come può chiederci Gesù di imitarlo nell’amore, fino a dare la vita? C’è infatti poco da girarci attorno: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri», detto la sera prima di andare a morire in croce, significa quello e soltanto quello. Può, perché non si tratta d’una semplice imitazione, che davvero sarebbe al di fuori delle nostre possibilità, ma rientra nella dinamica della glorificazione, che ha appena annunciato. Il Padre glorifica il Figlio effondendo per mezzo di lui lo Spirito su noi. E’ quindi lo Spirito che, risucchiandoci nella dinamica dell’amore trinitario, ci rende capaci di imprese impensabili, come amare senza misura. Del resto, se non fosse qualcosa di veramente straordinario, Gesù non potrebbe indicarlo quale criterio di riconoscimento dei suoi discepoli e in definitiva della credibilità del loro annuncio. Così però ci obbliga ad una seria assunzione di responsabilità: troppo ci siamo abituati a identificare nella secolarizzazione, nei piaceri della vita o nel banale disinteresse le cause della «mancanza di fede» del mondo contemporaneo.
Al contrario, se è valido il criterio proposto da Gesù – e chi oserebbe metterlo in discussione? – c’è piuttosto da stupirsi che ve ne sia ancora tanta, posto che amare non significa semplicemente andare d’accordo o evitare contese per il quieto vivere (cosa che nemmeno abbiamo fatto), bensì entrare in empatia con l’atro, caricarsi della sua croce, fino a scontrarsi con l’ingiustizia imperante, a fianco degli impoveriti dal sistema. Prenderne coscienza però è già un primo passo; il secondo consiste nell’aprirsi all’azione dello Spirito. Poco alla volta quindi, la liturgia ci sta preparando alla Pentecoste.
[da “Venite, è pronto!” Commento ai Vangeli festivi Anno C di don Alberto Vitali, Edizioni Paoline]