Domenica 10 marzo 2024
IV domenica di Quaresima
Gv 3, 14-21
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
COMMENTO DI DON LEONARDO ZENONI, VICARIO PARROCCHIALE A SERIATE
Vuoi rinascere?
Nascere è un dono. Rinascere è per-dono, il dono “fino in fondo”. Nascere è azione passiva; rinascere richiede invece la tua volontà in sinergia con Dio. Di questo sta parlando Gesù con Nicodemo; gli sta chiedendo se vuole venire alla luce di nuovo, cioè in maniera nuova, oppure se vuole accontentarsi di una vita saggia e senza particolari errori. Una vita «non nel male, ma nell’assenza della felicità che ne è la caricatura» come suggerisce ironicamente H. Daniel-Rops in un suo celebre romanzo di rinascita spirituale. Può capitare, infatti, che ci si adegui alla vita così com’è: sarà per l’età, le condizioni di vita, il carattere, che non desideriamo più cambiare, e anche il rapporto con il Signore diventa un’abitudine o una relazione inutile. A un Dio che ci spinge a rinascere, a intessere una relazione continuamente nuova con Lui e con gli altri, rispondiamo lamentando la pesantezza dell’oggi e le paure del domani. È uno stile antico: anche il popolo d’Israele si lasciò sedurre dalle proprie paure nel deserto, durante il cammino di rinascita dalla schiavitù alla libertà (Nm 21, 4-9). Le paure si concretizzarono in serpenti che uccidevano con un morso. Il popolo guardava i propri piedi e non più la meta; non voleva rinascere, preferendo la stabilità delle piccole o grandi schiavitù quotidiane. Può capitare anche a noi, come si diceva, che l’abitudine ci irrigidisca, facendoci adeguare, con impressionante tranquillità, alle tenebre rinunciando alla luce. Aveva ragione un altro simpatico romanziere, quando fa dichiarare al vescovo in dialogo con padre Smith: «Dal punto di vista non soprannaturale, quello che rende antipatico il peccato è il fatto che è tanto noioso!». Il peccato non ha per forza la prepotenza di un atto estremo; può essere la stanchezza delle abitudini che ci impediscono di volere ancora una volta dare fiducia a Dio che sempre, sempre, vuole che la sua creatura cresca e viva.
Il popolo guarì alzando lo sguardo dai propri piedi al serpente posto in alto. Lo stesso suggerisce Gesù a Nicodemo: alzare lo sguardo verso di Lui, che viene trafitto per trafiggere ogni male, ogni cattiva abitudine, ogni serpentello che rallenta il cammino. In questa domenica possiamo iniziare l’esame di coscienza che ci porterà alla confessione sacramentale. Riprendiamo i nostri passi e verifichiamo i mali, soprattutto quelli piccoli e ormai abitudinari, quelli che ci legano al nostro io, impedendoci il cammino verso il Signore e quindi verso il fratello (chi è annoiato pensa a sé, e a nessun altro). Non si tratta di un atto di colpevolizzazione, ma di liberazione: il Figlio, infatti, non è venuto «per condannare ma perché il mondo sia salvato» (Gv 3,17). Egli è la luce che illumina ogni uomo (Gv 1,9), è la vita (Gv 1,4. 8,12)! Non temiamo dunque di rinascere, andando verso di Lui. Sarà vita, libertà, novità. Come nascendo abbiamo intuito che fuori dal buio c’era un dono, così ora, nella rinascita pasquale, andiamo incontro al perdono da accogliere con grato stupore.