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Dom Helder Camara, il vescovo delle favelas

Dom Helder Camara, il vescovo delle favelas

[di Daniele Rocchetti, delegato regionale alla vita cristiana]

Venticinque anni fa moriva Helder Camara. Un nome che rischia di dire poco o nulla ai giovani o a coloro che, anche nelle nostre comunità ecclesiali,  attraversano distratti la storia del nostro tempo. Eppure è stato una figura decisiva della chiesa latinoamericana

Cosi significativa che poco tempo fa il vescovo di Olinda e Recife, dom Fernado Sabundo, ha annunciato che sta per partire per Roma, alla volta della competente Congregazione per le cause dei Santi, la lettera ufficiale con cui la Chiesa brasiliana chiede l’avvio del processo di canonizzazione.

Dio dalla pelle scura

Helder Camara nasce a Fortaleza, nel nord-est del Brasile, il 7 febbraio 1909. Viene ordinato sacerdote nel 1931 e subito manifesta la sua vocazione per i  più umili tra gli umili. Si distingue come uno degli esponenti più significativi della chiesa latino-americana impegnata nel sociale anche se, in una prima fase, Camara si avvicina ad un gruppo integralista brasiliano. Nel 1952 viene consacrato vescovo e tre anni più tardi arcivescovo ausiliare di Rio de Janeiro dove acquista il titolo di “Vescovo delle favelas”, i quartieri poveri che cingono la megalopoli brasiliana in un cerchio di miseria e di fame.

Nel 1955 diviee il primo Vice-Presidente del Consiglio Episcopale Latino Americano (CELAM) e per dieci anni si interessa della problematica religiosa e sociale del continente fino al 1964 quando Paolo VI, che ben l’aveva conosciuto al Concilio Vaticano II, lo nomina Arcivescovo di Recife, la capitale del Nord-Est brasiliano, la regione più povera di tutto il paese dove lui stesso era nato.

La sua passione per i poveri trova nelle condizioni miserabili di centinaia di migliaia di agricoltori e operai lo stimolo immediato per un’azione illuminata e profonda. In un suo messaggio scrive:

Continuando le attività che la nostra archidiocesi compie, avremo cura dei poveri, rivolgendoci specialmente alla povertà vergognosa, per evitare che la povertà degeneri in miseria. E’ evidente che in modo speciale, stanno presenti al mio pensiero i mocambos (i quartieri poveri di Recife) e i bambini abbandonati. Però non vengo per ingannare nessuno, quasi che bastino un poco di generosità e di assistenza sociale. Non c’è dubbio, ci sono miserie spettacolari davanti alle quali non abbiamo diritto di rimanere indifferenti. Molte volte l’unica cosa da fare è prestare un aiuto immediato. Però non pensiamo che il problema si limiti ad alcune piccole riforme”.  

Il 21 Aprile 1964, l’arcidiocesi di Olinda riceve il nuovo arcivescovo che non vuole essere accolto dentro la cattedrale, ma sulla piazza, in mezzo alla gente. Al suo incontro va la popolazione più indigente e abbandonata: poveri e neri. L’arcivescovo esordisce dicendo: “Nel nordest del Brasile, Gesù Cristo si chiama Zè, Maria e Severino. Ha la pelle scura e soffre la povertà”.

Per una chiesa dei poveri

Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso (Mt 5,3; 6,33.34; 8,20). Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi (queste insegne devono essere di fatto evangeliche, cf. Mc 6,9; Mt 10,9.10; At 3,6). Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale; e se sarà necessario averne, le intesteremo tutte alla diocesi o a opere sociali o caritative (cf. Mt 6,19.21; Lc 12,33.34).Affideremo, ogni volta che sia possibile, la gestione finanziaria e materiale nelle nostre diocesi a un comitato di laici competenti e consapevoli del loro compito apostolico, per poter essere meno degli amministratori che dei pastori e degli apostoli (cf. Mt 10,8; At 6,1-7).Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio: eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di “padre”.

Sono i primi cinque punti del “Patto delle catacombe”, il documento sottoscritto nelle catacombe romane di Domitilla da dom Helder Camara insieme ad una quarantina di padri conciliari, vescovi e cardinali di diversi continenti, il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Con questo documento, che venne consegnato a papa Paolo VI dal card. Lercaro e successivamente firmato da altri 500 vescovi, i firmatari si impegnavano a mettere i poveri al centro del loro operato pastorale ed episcopale e a condurre essi stessi una vita nella maggiore povertà possibile.

Il testo esprime la passione con la quale Camara ha cercato, per tutta la vita di proporre e di vivere, in prima persona, il tema di una Chiesa povera e di poveri e non solo per i poveri o con i poveri. Il vescovo brasiliano, su questo e su altri temi, fu molto attivo durante il tempo del Concilio. Ne sono la prova una serie di lettere pubblicate qualche anno da San Paolo (Roma, due del mattino) e che rivelano non solo consolidati rapporti che Camara ebbe con personalità di spicco della vicenda cristiana del Novecento (frère Roger di Taizé, don Giuseppe Dossetti, Giogio La Pira, Lanza Del Vasto, Jean Guitton) ma anche l’impegno di questo vescovo – “totalmente mistico, totalmente attivo” – per i temi della giustizia sociale. A sostegno di alcuni importanti “sogni” condivisi con molti padri Conciliari, un giorno ebbe a dire: “Va bene discutere del celibato, senza però trascurare argomenti più essenziali come fame e libertà”. Nella lettera destinata alla Congregazione per le cause dei Santi sta scritto: “Lo infastidivano la “pompa eccessiva” e il progressivo distanziamento della Chiesa dalle questioni sociali».

Servitore, non capo!

Non molto tempo fa mi è capitato di incontrare padre Marcelo Barros, monaco benedettino brasiliano che per otto anni ha lavorato a stretto contatto con Helder Camara. “Egli – mi racconta – sapeva vedere Dio in ogni persona. Specie nei più poveri. Una volta alla settimana ci riunivamo a casa sua. Mentre parlavamo molte persone bussavano alla porta. Egli stesso  si alzava e le riceveva. A volte si dilungava nell’ascolto. Diceva: ”Ci tengo a riceverli personalmente, perché può essere un povero e non voglio perdere il privilegio di accogliere il Signore stesso.”  “Un giorno, una donna nera lo cerca e gli racconta che il marito era stato arrestato dalla polizia perché ubriaco. Dom Hélmer la accompagna fino al commissariato. E dice al responsabile: “Sono venuto a trovare mio fratello che lei ha messo in prigione” L’uomo ordina di liberare il detenuto e, mentre glielo consegna, commenta: “Ma voi due siete fratelli? Come è possibile, se lui è nero e lei è bianco?” Dom Hélder risponde senza esitare: “E’ che siamo figli di madri diverse. Ma dello stesso Padre.” Un altro giorno, l’arcivescovo celebrava la messa in piazza dopo una processione popolare. C’era tanta gente in piedi, sotto il palco su cui era montato l’altare. Al momento della prima lettura, il cerimoniere invitò il vescovo a sedersi su una sedia, riservata al celebrante. Vestito con la casula, Dom Héleder andò verso la sedia, la sollevò e la porse a una donna nera povera, in mezzo all’assemblea, che aveva in braccio un bimbo piccolo. La fece sedere, ritornò al suo posto e, pazientemente, spiegò al cerimoniere: “Sono servitore del popolo non il capo. Non posso stare seduto mentre tutti rimangono in piedi!”

Guardare la storia con gli occhi dei poveri

Perché fare memoria di questo testimone? Perché mons. Camara ha indicato a tutti i cristiani, non solo a quelli del continente latinoamericano, il punto di vista dal quale leggere la storia e il Vangelo: quello dei poveri e degli ultimi. Perché il Vangelo ha un concetto diverso dal nostro per intendere il centro e le periferie. Perché Gesù ha un’idea strana su chi conta e chi ha la precedenza nel Regno dei cieli. Mons. Helder Camara, morto a novant’anni il 27 agosto del 1999, è stato l’icona di una chiesa che ha progressivamente scoperto che non si può annunciare Dio che sta nei cieli senza sporcarsi le mani nella grande basilica che, dopo l’incarnazione, è diventata il mondo, la storia. Non è possibile essere cristiani e non stare dalla parte dei poveri: è la vicenda stessa di Gesù a ricordarcelo.

Di fronte ai drammi del nostro tempo – e mons.Camara si è confrontato e scontrato con il dramma della fame, della miseria e del sottosviluppo – non esiste “neutralità”, non c’è possibilità alcuna di tirarsi fuori. A chi in Brasile lo contestava chiamandolo l’”obispo rosso” (vescovo rosso) accusandolo di fare politica, amava rispondere, senza mezzi termini, che “la politica è un capitolo del Vangelo”. Lo aveva predetto lucidamente: “Se do da mangiare ai poveri, mi chiamano santo. Se chiedo perché i poveri non hanno cibo, mi chiamano comunista.”  

Più o meno come papa Francesco che rispondendo a cinque giovani studenti belgi lo scorso 31 marzo ha detto loro: “Io sono credente, credo in Dio e in Gesù Cristo, per me il cuore del Vangelo è nei poveri. Ho sentito due mesi fa che una persona ha detto: con questo parlare dei poveri, questo Papa è un comunista! No questa è una bandiera del Vangelo, la povertà senza ideologia, i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù”.

Leggere il presente con gli occhi di Dio

Per questo, da vescovo, Camara si è sempre battuto contro il peccato di omissione, così presente in tante comunità cristiane. E’ stato un uomo e un credente libero, sin da quando partecipò attivamente, seppure nelle quinte, nelle sessioni del Concilio Vaticano II: “Va bene discutere del celibato, senza però trascurare argomenti più essenziali come fame e libertà”. Quando la Congregazione per la dottrina della fede mise in guardia dalla teologia della liberazione, Camara rispose che la salvezza dell’anima non esclude quella del corpo dalla miseria e dalla povertà. Sostenne che alcuni teologi erano vittime di una cattiva interpretazione del loro messaggio e diceva che “se isolassero alcune frasi di Cristo, come fanno con le nostre, sarebbe criticato anche Lui”. Così alla sua gente continuava a spiegare le cause della fame, del disagio, della povertà e le ragioni della lotta nonviolenta attiva (“il pacifismo non è passivismo!”). Ma parlava loro anche di speranza e di eternità, di contemplazione e di preghiera.  

Profeta è il termine che molti hanno usato per indicare l’azione e l’impegno pastorale di mons. Camara. Nella Bibbia, profeta non è colui che prevede il futuro ma colui che legge il presente con gli occhi di Dio. Che riconosce e grida lo scarto tra il sogno di Dio sul mondo e la realtà concreta. Per questo, molte volte, i profeti nella chiesa si preferisce onorarli da morti che riconoscerli da vivi. Sono scomodi, hanno passi divergenti, ragionano secondo il Vangelo e non secondo i calcoli del mondo.

Più volte interrogato sul perché di una certa “impopolarità” presso alcuni uffici vaticani, rispondeva, scherzando, che era il modo per pagare un errore di gioventù quando, durante la guerra, mentre le armate tedesche si avvicinavano a Roma, diverse volte, nelle sue preghiere, si sorprese a chiedere al Signore che non perdesse l’occasione… cioè che orientasse qualche bomba su qualche palazzo vaticano. “Poi finita la guerra capii che lo Spirito Santo – che è più intelligente di me, evidentemente – ha permesso che certi palazzi rimanessero in piedi… Sarebbe servito a poco che qualche bomba li avesse distrutti. La gente ricca li avrebbe ricostruiti subito e forse peggio di prima! Lo Spirito Santo quindi non mi ha ascoltato, però ha mandato in quei palazzi e nel mondo un’altra “bomba”, per la conversione dei nostri cuori: papa Giovanni XXIII…..” 

Una chiesa povera e serva

Perché questo era il sogno custodito da mons. Helder Camara: una Chiesa povera e serva. “Affinché la Chiesa sia serva come Cristo, affinché non offra al mondo lo scandalo di una Chiesa forte e potente che si fa servire, mi sembra fondamentale questo inizio d’inizio da fare subito, il primo giorno. Vi rendete conto di che rivoluzione sarebbe? Forse il prestigio del Papa crollerebbe. Ma è essenziale che abbia prestigio? Essenziale è che faciliti alla gente l’identificazione fra Cristo e il suo rappresentante diretto e immediato sulla terra. Essenziale è che l’umanità non veda nella Chiesa un Regno in più, un Impero in più.” 

Come gridarlo alle nostre comunità che hanno cancellato il tema della chiesa povera, che si sono abituate a convivere con  silenzi e omissioni e abbassano continuamente l’asticella dell’indignazione?

 

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